DEMOLIAMO LUOGHI COMUNI

giovedì 4 febbraio 2016

Il mito della competitività tedesca

"La Germania ha tagliato i salari e quindi ha sconvolto la bilancia commerciale dei paesi dell'Eurozona". Quante volte lo abbiamo sentito ripetere? L'idea che i beni tedeschi, improvvisamente divenuti più convenienti, abbiano sbaragliato quelli italiani, greci, spagnoli ecc ecc è diffusa come un luogo comune in tutti gli ambienti anti-euro, ed è sostenuta anche da personaggi come Costas Lapavitsas. Ma è tutto così semplice? Questo interessantissimo articolo pone qualche dubbio su una simile ricostruzione, svelando l'arretratezza dei modelli di chi fa sua una simile analisi. Ecco la mia traduzione. Dilettantesca, ma credo trasmetta il messaggio.


In risposta alla mia analisi critica sul ruolo della moderazione salariale tedesca nella crisi dell'eurozona, Heiner Flessbeck e Costas Lapavitsas hanno illustrato la loro versione di quel che grossomodo è il modello, da manuale neoclassico, di unione monetaria. La loro tesi principale è che non ci sarebbe stata alcuna crisi nelle bilance dei pagamenti degli stati euro, e dunque nessuna crisi del debito nei paesi in deficit, se tutti gli stati avessero mantenuto la crescita nominale dei salari uguale alla crescita della produttività del lavoro più il 2% (il target di inflazione). Il prof. Wren-Lewis (2016) condivide il medesimo argomento.
Seguendo tale impostazione, il delicato equilibrio dell'eurozona è stato deliberatamente sovvertito da una forte moderazione salariale nella mercantilista Germania, con crescenti surplus commerciali da parte tedesca che si presentano come meri riflessi dei crescenti deficit dell'Europa meridionale. È assai ironico che una simile logica sia comune a quella utilizzata da osservatori come Sinn (2014), o addirittura dallo stesso Schauble, con un'unica differenza: Sinn e Schauble sostengono che la crisi delle partite correnti sono dovute all'incapacità dei paesi in deficit di seguire il virtuoso esempio tedesco di taglio del costo del lavoro. Sia chiaro: il punto, per me, non schierarmi da una parte o dall'altra di tale dibattito, tra quelli che accusano la Germania di essere cresciuta a scapito dei vicini o tra quelli che invece la lodano per la sua super-competitività. Entrambe le parti sbagliano nel ritenere che un modellino da manuale universitario possa essere usato, con qualche credibilità, per sostenere che gli squilibri dell'eurozona siano stati provocati da incrementi o da diminuzioni (esogeni) del costo del lavoro per unità di prodotto. Si tratta di un mito-anzi di un feticcio, per dirla con Marx; un totem reificato che impedisce la comprensione di quanto sta davvero accadendo. È decisamente venuta l'ora di sfatare questo mito, per almeno cinque buone ragioni.

Dove sono le banche?

In primo luogo, il modello proposto da Flassbeck e Lapavitsas presenta un deciso sapore pre-hilferdingiano, e dandolo per buono sembra che il capitalismo dell'eurozona non sia ancora giunto alla fase del “capitale monopolistico”. Che ruolo giocano le grandi banche, i flussi finanziari transnazionali, la BCE, nell'analisi di Flassbeck e Lapavitsas? Nessuno. Gli autori si concentrano esclusivamente sull'importazione e l'esportazione di beni e servizi, e il loro silenzio su banche, flussi finanziari, e tassi di interesse riflette un'impostazione per la quale il “settore finanziario” dell'EZ si limita ad adeguarsi, passivamente, a tutto ciò che accade nell'economia reale. L'impostazione emerge con chiarezza quando gli autori paragonano l'EZ (i cui membri sono privi di una valuta nazionale) ad un paese dotato di una propria moneta, come a sostenere che, nel secondo caso, gli squilibri commerciali non potrebbero che essere temporanei, dato che l'apprezzamento (o deprezzamento) automatico del tasso di cambio “di equilibrio” eliminerebbe, prima o dopo, deficit e surplus.
Nel mondo dopo Hilferding (1910), tuttavia, un simile automatismo esiste solo nei manuali, poiché l'influenza degli scambi di merci sul tasso di cambio si rivela generalmente irrisorio rispetto all'impatto dei grandi flussi finanziari transnazionali, i quali sono perlopiù indifferenti a flussi commerciali (Akyuz 2014; Bortz 2016). Vale anche per l'EZ: i miliardi di euro prestati dalle banche tedesche e francesi alle imprese (finanziarie) irlandesi e spagnoli, spagnole e greche non erano diretti a finanziare il commercio (O'Connell 2015). Proprio questi grandi movimenti di capitali dal cuore dell'EZ alla periferia, provenienti soprattutto da colossi della finanza (O'Connell 2015) hanno giocato un ruolo centrale nella destabilizzazione dell'EZ, un ruolo riconosciuto dal Prof. Bofinger e dalla c.d. “Consensus Narrative” (2015), ma non da Flassbeck e Lapavitsas, che non lo menzionano e non lo analizzano, facendo sì che la loro “diagnosi” della crisi dell'EZ assomigli a un Amleto in cui non viene citato il Principe di Danimarca.

E la concorrenza oligopolistica?

In secondo luogo, Flassbeck e Lapavitsas si basano su una concezione alquanto debole della concorrenza tra imprese, centrata tutta sulla riduzione del costo del lavoro ottenuta mediante aumenti della produttività. Essi affermano che “le condizioni dell'offerta si presentano perlopiù come un dato per le imprese, in quanto le forze del mercato tendono al livellamento dei prezzi dei beni intermedi e del costo del capitale” (corsivo mio) e perciò le imprese più innovative (cioè quelle che riescono a tagliare il costo del lavoro) tendono a fare più profitti e a crescere, mentre quelle più arretrate perdono fette di mercato e e alla fine falliscono.
Tutto ciò è davvero notevole. Perché il loro ragionamento funzioni, gli autori presumono che la concorrenza (globale) assicuri il livellamento dei prezzi tra i vari paesi; fatto che, sul piano empirico, è posto in dubbio persino dagli economisti neoclassici; sul piano teorico, necessita che siano postulati mercati perfettamente concorrenziali. Dunque secondo Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis le imprese non hanno il potere di imporre i prezzi, hanno tutte le stesse strutture produttive, e producono tutte beni più o meno simili (omogenei). Tutto ciò è estremamente irrealistico: nel mondo reale, gli oligopoli decidono unilateralmente i prezzi e operano attraverso immense catene globali di produzione, impegnandosi nella differenziazione dei prodotti, nel marketing, nella comunicazione ecc., producendo beni molto diversi in termini di complessità, qualità, e tecnologia.
Quel che Flassbeck e Lapavitsas non riescono a vedere sono le condizioni materiali dell'economia europea: le aziende tedesche, produttrici di costosi beni ad alta tecnologia, alto valore aggiunto, spesso grande complessità, non sono in diretta concorrenza con le aziende portoghesi, greche, spagnole, e persino con la maggior parte delle imprese italiane, le quali sono invece specializzate nella produzione di beni meno complessi, caratterizzati da scarso contenuto tecnologico, basso valore aggiunto e bassi prezzi (Simonazzi et al 2013). Le aziende tedesche sono in grado di fissare i prezzi e dominare le loro nicchie di mercato, mentre le quelle greche e portoghesi competono con i produttori a basso prezzo dell'Asia; competono sui costi, ma non esclusivamente sul costo del lavoro: e non riescono a reggere la concorrenza dei produttori cinesi (Straca 2013). In buona sostanza, la concorrenza presente nel mondo reale sui mercati oligopolistici non può essere ridotta alla semplice competizione sul costo del lavoro, qualsiasi cosa vogliano farci credere i manuali. E chi insiste nel concentrarsi sul costo del lavoro per unità di prodotto non dovrebbe trascurare i costi per unità di capitale (o i margini di profitto), così come sostenuto da Felipe e Kumar (2011), visto che le imprese possono benissimo competere sui margini di profitto.

Evidenze empiriche

In terzo luogo, Flassbeck e Lapavitsas non offrono un supporto empirico alle loro ipotesi. Evidenziamo quattro “fatti” empirici che contrastano con la loro principale argomentazione.
1) l'elasticità del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto a esportazioni ed importazioni tende ad essere molto minore (in valori assoluti) della corrispondente elasticità ai prezzi, dato che a) i salari costituiscono soltanto il 22% del totale dei costi di produzione e b) le imprese in grado di fissare i prezzi scaricano su questi ultimi soltanto metà del maggior costo derivante da un aumento dei salari (Storm e Naastepad, 2015). Ciò significa che ad un elasticità, relativa al prezzo delle esportazioni, pari a -1.2, corrisponde una elasticità del costo del lavoro alla domanda di esportazioni pari a circa -0.13. Pertanto, per incrementare le esportazioni di un magro 2%, i salari nominali di un paese dovrebbero diminuire di circa il 15% (posto che la produttività rimanga immutata). Ricorda davvero il cane che si morde la coda.
2) ci sono dati che dimostrano che in paesi come la Spagna il deficit commerciale è aumentato per effetto di una crescita più rapida delle importazioni, mentre le le esportazioni rimanevano stazionarie. Se questo è il quadro, perché un più alto costo del lavoro per unità di prodotto ha avuto effetto solo sulle importazioni, e non sulle esportazioni?
3) se si vuole individuare l'impatto del costo del lavoro sul commercio, occorre rimuovere dal campo di osservazione altri fattori che possono influenzare gli scambi commerciali, in particolar modo il reddito e la domanda aggregata. Ma tale operazione dimostrerà che la crescita del reddito mondiale giustifica, di per sé, la crescita delle esportazioni, e che la crescita dei redditi nazionali è sufficiente a spiegare la crescita delle importazioni, almeno per quanto riguarda la maggior parte delle economie (Bussiere et al 2011). In altre parole: le evidenze empiriche dimostrano che le dinamiche relative al reddito hanno un impatto molto maggiore di quelle concernenti la competitività di prezzo, specie nel lungo termine (per approfondire, Schroeder 2015).
4) come la letteratura insegna, bisogna tenere per ultimo l'elemento più importante: il costo del lavoro nei paesi paesi in crisi è cominciato a crescere solo a seguito di un precedente peggioramento della loro bilancia dei pagamenti (Diaz Sanchez e Varoudakis 2013; Gabrisch e Staehr 2014). Ciò indica che l'aumento del costo del lavoro è più l'effetto che la causa degli squilibri commerciali. È difficile vederla in altro modo. L'evidenza empirica è molto eloquente; e non parla a favore del mito del costo del lavoro (per analoghe considerazioni, vedi: Felipe e Kumar 2011; Wyplosz 2013; Diaz Sanchez & Varoudakis 2013; Gabrisch & Staehr 2014; Janssen 2015; Schroeder 2015.)

E i redditi? E la domanda aggregata?

In quarto luogo, ciò che è peculiare dell'analisi degli squilibri dell'eurozona proposta da Flassbeck e Lapavitsas è che non riserva alcun ruolo (e nemmeno una menzione) per cose come “la domanda aggregata” o “il reddito”. Il loro è un esempio di riduzionismo involontario in cui le esportazioni, poniamo, della Germania (le quali costituiscono le importazioni, poniamo, della Spagna) dipendono esclusivamente dai costi del lavoro per unità di prodotto in Germania e in Spagna.
Questo non può essere vero. È evidente che le esportazioni tedesche verso la Spagna dipenderanno anche dalla domanda aggregata spagnola, non foss'altro perché una buona parte delle importazioni spagnole è rappresentata da beni capitali (macchinari e strumentazione) e intermedi (prodotti ad alta tecnologia e relative componenti), e pertanto è da considerarsi complementare (Bussiere et al 2011). Poniamo che le esportazioni di un paese (E) dipendano dal reddito mondiale (W) e dal suo costo del lavoro (c); le importazioni dipendono invece dal reddito nazionale (Y) e dal relativo costo del lavoro (c). Possiamo allora scrivere la seguente espressione logaritmica per descrivere la bilancia dei pagamenti di quel paese (Fagerberg 1988):
(dove l'elasticità al reddito mondiale delle esportazioni, l'elasticità al reddito nazionale delle importazione, l'elasticità del costo del lavoro alle esportazioni, l'elasticità del costo del lavoro alle importazioni per ogni paese sono unità immaginarie)


L'equazione è utilissima per evidenziare come Flassbeck e Lapavitsas, ma anche Wren-Lewis, i quali hanno attenzione solo per i costi del lavoro, trascurano una parte importante (se non la totalità) del quadro. Essi affermano che se il costo del lavoro nell'EZ è costante (c=1 e quindi Log c=0) la bilancia dei pagamenti rimarrà ferma. Dall'equazione, tuttavia, consegue che ciò può accadere solo in circostanze del tutto particolari, ovvero quando la crescita delle esportazioni di un paese, indotta dalla crescita del reddito mondiale, è identica alla crescita delle importazioni indotta dalla crescita del reddito nazionale. Non c'è alcuna ragione per credere che tali condizioni si debbano verificare e perciò è necessario aspettarsi, in condizioni normali e realistiche, che la bilancia dei pagamenti migliori o peggiori a seconda che la crescita delle esportazioni indotta dalla domanda globale superi o no la crescita delle importazioni indotta dalla domanda nazionale.
Più specificamente: consideriamo la Spagna, ovvero un'economia specializzata in produzioni a contenuto tecnologico medio-basso, rispetto alle quali l'elasticità al reddito della domanda globale non è alta (in effetti è piuttosto bassa). Allo stesso tempo, la Spagna importa (dalla Germania) beni capitali altamente tecnologici e beni intermedi sofisticati, la cui elasticità al reddito è molto alta. Il risultato è negativo per la Spagna. Ciò significa che anche se la Spagna crescesse allo stesso ritmo del resto del mondo (o dell'Eurozona), la sua bilancia commerciale in ogni caso peggiorerebbe, poiché la crescita delle sue importazioni supererebbe quella delle esportazioni.
Vale esattamente il viceversa per la Germania, la quale produce beni capitali o di consumo altamente tecnologici destinati alle economie in rapida espansione (la Cina ad esempio, ma anche la Russia). Pertanto, la domanda di esportazioni presenta una forte elasticità al reddito mondiale, mentre la maggior parte delle importazioni tedesche sono complementari (e crescono parallelamente alla produzione nazionale e alla domanda: Bussiere et al 2011). Conseguentemente, per la Germania il risultato è positivo, e dunque il suo avanzo commerciale tende a crescere, anche quando la Germania allinea la sua crescita a quella del resto del mondo (e dell'eurozona). Questi percorsi asimmetrici di crescita sono la diretta conseguenza delle differenze strutturali nella specializzazione produttiva (Simonazzi et al 2013). Nei lavori di Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis vengono del tutto ignorati.

Aumentare salari e inflazione in Germania non servirà.

Infine, Flassbeck e Lapavitsas auspicano una crescita dei salari (e dell'inflazione) in Germania, così come Wren-Lewis (2016), nell'erronea supposizione che questo ridurrà la competitività di prezzo tedesca, contrasterà gli avanzi commerciali, e quindi riporterà equilibrio all'intera EZ. Tuttavia le importazioni e esportazioni tedesche, come ho appena sostenuto, non sono molto sensibili ai cambiamenti nei relativi costi del lavoro, e pertanto ci sarebbe soltanto un limitato effetto nella direzione degli acquisti (da beni tedeschi ai beni prodotti all'estero), come è stato peraltro dimostrato da Schroeder (2015). Intendiamoci: io sono assolutamente favorevole all'incremento dei salari reali in Germania (superiore alla crescita della produttività più il 2%): è una misura utile per la Germania. Ma non lo è per i paesi in crisi dell'Eurozona.
Una crescita dei salari e della domanda in Germania non costituisce un modo per stabilizzare l'EZ, come è dimostrato dagli effetti di ricaduta (diretti e indiretti) della crescita tedesca sugli altri paesi europei in termini di valore aggiunto, i quali si diramano in varie direzioni attraverso le catene globali del valore. Nello specifico: se la crescita tedesca genera un aumento della produzione e nella creazione di valore aggiunto negli USA, e se le imprese americane acquistano beni intermedi e componenti dalla Corea del Sud, e se a loro volta le imprese coreane utilizzano, per la loro produzione, beni prodotti in Italia o Spagna, l'effetto indiretto della crescita tedesca sul valore aggiunto in Italia e Spagna va incluso nel totale degli effetti in termini di valore aggiunto riportati in Tabella 1. Gli effetti di ricaduta in termini di valore aggiunto sono stati calcolati utilizzando i dati degli scambi internazionali tratti dalla serie del 2011 del World Input-Output Database (WIOD), il quale include 35 settori produttivi (di cui 14 manifatturieri) di 40 paesi diversi (tra i quali tutti e 27 i membri dell'UE alla data del 1 gennaio 2007). La stima offre un salutare confronto con la realtà all'ipotesi che ripresa dell'EZ possa basarsi sulla crescita della Germania.
Assumiamo una crescita del PIL tedesco pari a 100 miliardi di euro (ovvero del 3,7& del PIL di quel paese). Attraverso le catene globali di produzione, la crescita tedesca genera reddito per 29,5 miliardi di euro nel resto del mondo, di cui 7 nei paesi dell'EZ riportati in tabella. Già questo dimostra quanto sia riduttivo concentrarsi solo sull'EZ, dato che la maggior parte del commercio tedesco è con il resto del mondo. Sul totale del valore aggiunto generato dalla crescita tedesca, quasi il 57% (3,99 miliardi di euro) viene assorbito da Austria, Belgio, Olanda e Francia, un altro 20% (1,4 miliardi) da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, e Slovenia, il resto (1,66 miliardi) dall'Europa meridionale. Questo è il mio argomento chiave: il surplus in termini di valore aggiunto generato dalla crescita tedesca è maggiore, in termini assoluti, per l'insieme di Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovania (con una popolazione totale di 17,9 milioni di persone) che per quello costituito da Grecia, Portogallo e Spagna (con una popolazione di 64,8 milioni).
La crescita tedesca stimola in maniera significativa i PIL dell'Olanda, del Belgio, dell'Austria, e anche della Repubblica Ceca, della Polonia, della Slovacchia, della Slovenia; ma le ripercussioni sulla crescita dell'Europa meridionale sono quasi insignificanti (Tabella). Una reflazione in Germania, spinta dalla crescita dei salari e della domanda, non sarebbe in alcun modo in grado di rappresentare una svolta per i paesi del Sud Europa. Credere il contrario è una pia illusione, basata sull'ignoranza delle asimmetrie fondamentali in termini di produzione, tecnologia e specializzazione che costituiscono, nel complesso, la condizioni materiali dell'eurosistema.
Table 1 Value Added Spillovers Caused by a €100 billion Increase in German GDP (2011)



Value added spillovers (billions of €)
GDP 2011 (billions of €)
% change in GDP
Population (millions)
Germany
100.00
2703.1
3.70
81.8





France
1.25
2059.3
0.06
65.0
The Netherlands
1.30
642.9
0.20
16.7
Belgium
0.73
379.1
0.19
11.0
Austria
0.70
308.6
0.23
8.4
Western Europe
3.99
3390.0
0.12
101.0





Italy
0.99
1638.0
0.06
59.4
Greece
0.02
207.0
0.01
11.1
Portugal
0.10
176.2
0.06
10.6
Spain
0.54
1070.4
0.06
46.7
Southern Europe
1.66
3092.5
0.05
127.7





Poland
0.70
380.2
0.19
38.1
Czech Republic
0.48
163.6
0.29
10.5
Slovak Republic
0.16
70.4
0.22
5.4
Slovenia
0.06
36.9
0.16
2.1
Eastern Europe
1.40
651.1
0.21
56.0





Rest of the world
15.41



Total foreign value-added spillover
29.50



Note: i dati su PIL e popolazione vengono dall'Eurostat. Gli effetti di ricaduta sul valore aggiunto sono stimati usando i dati del 2011 tratti dal World Input-Output Database (WIOD). Sono veramente grato a Sebastiaan Leysen per aver calcolato la dimensione di questi effetti.

Le vere questioni (di nuovo)

Continuare a parlare del costo del lavoro sposta l'attenzione dai veri problemi dell'EZ: l'unificazione monetaria ha portato a un processo centrifugo di divergenza strutturale in termini di capacità produttiva, occupazione e commercio (come spiegato nei miei articoli precedenti). Tale processo è stato alimentato e rafforzato non solo dall'impennata nei movimenti transnazionale di capitale a seguito dell'introduzione dell'euro, ma anche dall'esistenza stessa della moneta unica, nonché dalla politica dei tassi di interesse, uniforme e centralizzata, della BCE, la quale fino al 2008 era forse opportuna per un'economia stagnante e con poca inflazione come quella tedesca, ma era senza dubbio inappropriata rispetto ai livelli di inflazione presenti nell'Europa del Sud (Lee e Crowley 2009; Nechio 2011; O’Connell 2015; Storm e Naastepad 2015). Il credito a buon mercato nel Sud ha portato una bolla immobiliare insostenibile, e ha facilitato un accumulo di debiti in uno scenario caratterizzato da crescita alta, bassa disoccupazione e salari in aumento; ma tutto questo si è concentrato (in assoluta coerenza con i tassi di profitto di mercato) nei settori produttivi non dinamici e non esposti alla concorrenza internazionale. La moderazione salariale tedesca ha sì avuto un ruolo, non sul versante di un' ipotetica competitività di prezzo, ma perché ha depresso la crescita e l'inflazione in Germania, il che ha indotto la BCE ad abbassare i tassi di interesse.
La crisi che ne è seguita è una profonda crisi da domanda aggregata nel breve termine, di ingovernabile divergenza strutturale tra i paesi membri dell'EZ nel lungo. Le questioni dovrebbero pertanto essere: come fare per riportare gli stati membri di un'unione monetaria (fin qui priva di una significativa politica fiscale a livello sovranazionale) alla convergenza strutturale in termini di strutture produttive, efficienza, e in ultima istanza redditi e tenore di vita? Qual è il livello dei tassi di interessi appropriato sia per il centro che per la periferia dell'EZ, dal momento che dev'essere eguale per entrambi? E che contributo possono dare le banche, il settore finanziario, i movimenti di capitale al processo di convergenza (piuttosto che a quello di divergenza)? Non ci sono risposte semplici ed è facile abbandonarsi al pessimismo della ragione. Ma il futuro dell'EZ apparirà sempre oscuro, se gli economisti progressisti non si armeranno dell'ottimismo della volontà e non cominceranno ad occuparsi seriamente delle questioni davvero importanti, invece di rimasticare i miti della competitività da costo del lavoro.

Note e bibliografia

Akyüz, Y. 2014. Internationalization of finance and changing vulnerabilities in emerging and developing economies. UNCTAD Discussion Paper No. 217. Available at: http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/osgdp20143_en.pdf
Bofinger, P. 2015. German wage moderation and the Eurozone crisis. Social Europe. 1 December. At: http://www.socialeurope.eu/2015/12/german-wage-moderation-and-the-eurozone-crisis/
Bortz, P.G. 2016. Inequality, Growth and “Hot Money.”Cheltenham: Edward Elgar.
Bussière, M., G. Callegari, F. Ghironi, G. Sestieri and N. Yamano. 2011. Estimating trade elasticities: demand composition and the trade collapse of 2008-09. Mimeo.
Diaz Sanchez, J.L. and A. Varoudakis. 2013. Growth and competitiveness as factors of Eurozone external imbalances. Policy Research Working Paper 6732. Washington, DC: World Bank.
Fagerberg, J. 1988. International Competitiveness. The Economic Journal, 98 (391): 355-374
Felipe, J. and U. Kumar. 2011. Unit labor costs in the Eurzone: The competitiveness debate again. Working Paper No. 651. Levy Economics Institute of Bard College.
Gabrisch, H. and K. Staehr. 2014. The Euro Plus Pact: cost competitiveness and external capital flows in the EU countries. Working Paper Series No. 1650. Frankfurt: European Central Bank.
Gaulier, G. and V. Vicard. 2012. Current account imbalances in the euro area: competitiveness or demand shock? Banque de France Quarterly Selection of Articles No. 27. Paris: Banque de France.
Hilferding, R. 1910. Das Finanzkapital. Eine Studie über die jüngste Entwicklung des Kapitalismus. Vienna: Wiener Volksbuchhandlung.
Janger, J., W. Hölzl, S. Kaniovski, J. Kutsam, M. Peneder, A. Reinstaller, S. Sieber, I. Stadler, and F. Unterlass. 2011. Structural Change and the Competitiveness of EU Member States - Final Report. On-line available at: http://ec.europa.eu/enterprise/policies/ industrial-competitiveness/documents/files/structural_change_en.pdf
Janssen, R. 2015. European economic governance and flawed analysis. Social Europe. Available at: http://www.socialeurope.eu/author/ronald-janssen/
Lee, J. and P.M. Crowley. 2009. Evaluating the stresses from ECB monetary policy in the euro area. Bank of Finland Research Discussion Papers 11-2009. Helsinki: Bank of Finland.
Nechio, F. 2011. Monetary policy when one size does not fit all. FRBSF Economic Letter 2011-18. San Francisco: Federal Reserve Bank of San Francisco.
O’Connell, A. 2015. European crisis: a new tale of center-periphery relations in the world of financial liberalization/globalization? International Journal of Political Economy 44 (1): 174-195.
Rebooting Consensus Authors. 2015. Rebooting the Eurozone: Step 1 – agreeing a crisis narrative. 20 November. Available at: http://www.voxeu.org/article/ez-crisis-consensus-narrative
Schröder, E. 2015. Eurozone imbalances: measuring the contribution of expenditure switching and expenditure volumes 1990-2013. Department of Economics Working Paper 08/2015, The New School for Social Research. Available at: http://www.economicpolicyresearch.org/econ/2015/NSSR_WP_082015.pdf
Simonazzi, A., A. Ginzburg and G. Nocella. 2013. Economic relations between Germany and southern Europe. Cambridge Journal of Economics 37 (3): 653-675.
Sinn, H.W. 2014. Austerity, growth and inflation: remarks on the Eurozone’s unresolved competitiveness problem. The World Economy 37 (1): 1-13.
Storm, S. and C.W.M. Naastepad. 2015. NAIRU economics and the Eurozone crisis. International Review of Applied Economics 29 (6): 843-877.
Stracca, L. 2013. The rise of China and India. Blessing or curse for the advanced countries? Working Paper Series No. 1620. Frankfurt: European Central Bank.
Wren-Lewis, S. 2016. German exports and the Eurozone crisis. January 24, 2016. Available at: https://www.socialeurope.eu/author/simon-wren-lewis/
Wyplosz, C. 2013. Eurozone crisis: it’s about demand, not competitiveness. At: https://www.tcd.ie/Economics/assets/pdf/Not_competitiveness.pdf

mercoledì 2 settembre 2015

Smettere di essere follower

Ho cominciato a esplorare l'Antisistema web nel 2009. All'inizio ne ero completamente affascinato. Ho frequentato i siti e i blog più stravaganti, e ho seguito, con ritmo quotidiano, le evoluzioni dei mille "autori" che popolano questo microcosmo. Microcosmo che ben conosco, e di cui potrei stendere una mappa anche migliore di questa. Grazie a queste frequentazioni ho potuto conoscere molte persone in cui altrimenti non mi sarei imbattuto. Lo ammetto: è stato anche svago. Per anni, tuttavia, ho pensato che., oltre che a passare il tempo, la blogosfera potesse fungere da università parallela: un luogo dove entrare in contatto con insegnanti ed insegnamenti liberi dal conformismo che ammorba le vere università e le agenzie culturali in genere. Pensavo che attraverso l'Antisistema web avrei potuto apprendere le nozioni indispensabili per affrontare le storture di questo mondo orrendo, o almeno per non esserne complice. Tutto ciò presupponeva che le risorse intellettuali presenti nella blogosfera, e più precisamente la qualità intellettuale degli "autori" che le danno forma potesse in qualche modo rivaleggiare con quella del mainstream. Errore madornale.
Ciò che ho imparato negli ultimi tempi, e precisamente nell'ultimo anno, è che, semplicemente, non c'è confronto. Gli intellettuali mainstream, siano essi apertamente "di regime" ovvero non schierati, sono in grado di dare un'interpretazione coerente della realtà; gli "autori" Antisistema sono semplici macchiette. Prendere Diego Fusaro a punto di riferimento per la filosofia, ovvero Alberto Bagnai o per l'economia, o anche Giorgio Cremaschi o Mimmo Porcaro per la politica, sancisce la definitiva disfatta dell'Antisistema, e ciò sia per il versante della capacità di analisi che per la semplice credibilità.
D'altro canto l'immenso divario  tra i due gruppi emerge solo se si contrappone politicamente Sistema e Antisistema, come facevo io fino a qualche tempo fa: il che è molto sciocco. La contrapposizione avrebbe senso se l'Antisistema si ponesse in qualche modo a contrasto del Sistema. Ma non è ciò che avviene: gli "autori" non si preoccupano di organizzare un simile contrasto, bensì della propria autopromozione. C'è chi ha la vocazione di scrivere libri, e usa la propria popolarità web per farli vendere. C'è chi è bravo nelle recite televisive, e ottiene i riflettori. C'è chi ha la passione di organizzare micro-partiti e micro-sindacati, e fa quello. Ognuno secondo il suo "talento".
In questa dinamica è fondamentale il ruolo del follower. Nell'economia di internet il follower è merce. I piccoli capitalisti dell'Antisistema ne accumulano il più possibile, se necessario contendendosela tra di loro. Attorno alla luce emanata dal singolo "autore" sciama il nugolo dei followers, orgogliosi del loro commento sul Blog, del loro commento su Facebook, del loro Tweet.
Qual è il profilo del follower ordinario? E' tipicamente un deluso dal Sistema, ovvero qualcuno che non riesce ad adattarvisi. In quanto tale, potrebbe essere il soggetto migliore per dare corpo ad una alternativa. Il suo guaio è che abituato ad avere dei punti di riferimento saldi: non potendo più esserlo il Sistema, ne cerca altri; e il più delle volte viene catturato dalla luce dei protagonisti dell'Antisistema. Una volta catturato, il follower medio è contento: ha trovato quello che cercava; qualcuno che gli dicesse cosa pensare. L'Antisistema, dunque, non è l'incubatrice dell'alternativa, ma il suo sedativo.
Questa situazione non è figlia del caso. E' dovuta ai rapporti di forza reali tra il Sistema (che altro non è che il capitalismo) e chi gli si oppone, o pretende di opporvisi. Questo aspetto è molto importante, e dovrà essere approfondito separatamente. Per ora vorrei limitarmi ad esporre una proposta operativa.
Questo blog ha la funzione di esporre pubblicamente non tanto le mie riflessioni, che possono interessare fino a un certo punto, quanto i miei sforzi di colmare l'immenso gap che mi divide dagli intellettuali mainstream. Intendo impadronirmi di un pensiero che sia davvero capace di mettere in discussione l'egemonia del Sistema. Occorrerà intraprendere un percorso che durerà anni, fatto di letture, studi, interventi, esperienze, segnalazioni...
Il blog serve a esporre pubblicamente i risultati e le tappe di tale percorso. Scrivere mi aiuterà a mettere ordine nei pensieri. Anche se non dovessi avere un solo lettore (ipotesi plausibile), l'esercizio non sarebbe vano.
Per fare tutto questo non mi servono i commenti dei lettori.
Il commento, così tipico dei blog, è un meccanismo che più di altri induce a diventare follower. La dialettica tra autore e commentatore è chiaramente asimmetrica: somiglia a quella tra autore di uno spettacolo e spettatori. Alla fine dello spettacolo il pubblico fischia o applaude: in un caso come nell'altro è chi calca il palcoscenico il centro della relazione, mentre i membri del pubblico ne sono i satelliti. L'autore è il soggetto attivo; gli spettatori/commentatori sono soggetti passivi.
A me tutto questo non interessa. Non sono qui per farmi un pubblico. Non ho da insegnare, ma da apprendere. Se qualcuno vuole aiutarmi nell'apprendimento con osservazioni e critiche a quanto affermo si prende il disturbo, e per certi versi la responsabilità, di inviarmi per mail un suo scritto, di dimensioni ragionevoli, che verrà pubblicato come un post autonomo, rigorosamente con nome e cognome. Ciò vale anche per chi intende inviarmi qualcosa di suo che non rappresenta una risposta ad un mio post. Tutto ciò che mi scriverete sarà pubblicato, ovvero esposto al pubblico ludibrio (dipende da quel che si scrive).
Da questo momento, pertanto, i commenti sono disabilitati. Chi vuole intervenire lo faccia sfruttando l'indirizzo mail indicato a lato. Chi non ha nulla da dire taccia.




martedì 21 luglio 2015

Cos'è che davvero manca all'Europa

A lungo è stato sostenuto che ciò che mancava nell'eurozona fosse un prestatore di ultima istanza. Altri lamentano l'assenza di un autentico bilancio federale, o quantomeno di un coordinamento tra politica fiscale e monetaria. In molti sottolineano il deficit democratico delle istituzioni europee, alcuni denunciano l'assenza di un popolo europeo. Ma ciò che davvero manca all'Europa di oggi è tutt'altra cosa. 
L'UE, che si presenta come un'unione di stati, è in realtà un'arena di stati. Nello scontro le varie parti fanno appello a  regole e principi variamente individuate. Abbiamo tutti sentito dire:

1) che un taglio o una ristrutturazione del debito sono vietate dai Trattati UE.
2) che è possibile la sospensione temporanea di uno stato membro dall'eurozona.
3) che non è giuridicamente possibile l'uscita di uno stato membro dalla sola eurozona.
4) che non è possibile costringere uno stato membro a lasciare l'eurozona.
5) che se la BCE avesse aumentanto la dose di liquidità straordinaria alle banche greche avrebbe violato il proprio statuto.
6) che se NON lo avesse fatto avrebbe violato i Trattati.
7) che la Germania avrebbe dovuto saldare i propri debiti di guerra.
8) che tali debiti erano stati condonati in occasione della riunificazione tedesca. 
ecc ecc ecc...

E questo elenchino riassume solo una parte delle questioni sollevate dalla crisi debitoria degli stati dell'eurozona. Il Fiscal Compact è compatibile col resto dei Trattati UE? Le riforme imposte dalla Troika sono compatibili coi diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione? Ed è vero che la BCE ha come unico scopo mantenere la stabilità dei prezzi, e non anche promuovere crescita e occupazione? 
Nell'attuale situazione, ogni stato porta avanti la sua propria soluzione a queste questioni. Date certe fonti normative (i Trattati, i principi di diritto internazionale, le singole Costituzioni), ognuno fabbrica l'interpretazione che più gli conviene. Questa è una situazione di assenza di diritto. Se i contendenti sono lasciati liberi di decidere chi tra loro ha ragione, deciderà la forza. Quando i contendenti sono stati, deciderà lo stato più forte. E' pertanto logico che la Germania abbia potuto schiacciare la Grecia, imponendo la sua interpretazione, aiutata dagli altri stati dell'Unione in virtà dell'effetto band-wagoning. E così il tentativo di Tsipras, che doveva suonare la tromba della ribellione europea, si è concluso in una specie di stupro di gruppo. 
Ora, quella della forza è sempre stata la regola dei rapporti tra stati. Il diritto internazionale ha sempre funto da travestimento di tale realtà. Quella internazionale non è mai stata davvero una comunità di diritto. Ed è questo il vulnus principale dell'UE: non aver introdotto alcun elemento di vera novità in tale scenario. Vince il più forte, come sempre. Perché il più debole abbia delle chanches, serve il diritto.
Ma come si trasforma una comunità (di stati come di individui) in una comunità retta dal diritto? 
Le migliori menti del '900 hanno già fornito una risposta a questa domanda. 
Hans Kelsen, nel suo Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale (1920) ha spiegato come meglio non si poteva che l'unico strumento di costruire una pacifica convivenza tra stati, eliminando dalla scena il sopruso e la prepotenza di quelli più forti, non sta nella costruzione di un unico immenso stato federale, bensì nell'istituzione di un'unica Corte di Giustizia. Un giudice, insomma, che in piena indipendenza sia deputato a dirimere i contrasti tra stati, distribuendo torti e ragioni e affermando il diritto. 
Kelsen, in una ricostruzione che non risparmia riferimenti all'antropologia, dimostra come nelle comunità umane è sempre la giurisdizione a precedere la legislazione. Prima si istituisce il giudice, e solo dopo si pensa a elaborare un testo normativo che ne vincoli la giurisprudenza. Questo perché la presenza di un soggetto terzo che stabilisca chi ha ragione tra i contendenti è la condizione minima e irrinunciabile del diritto. Il giudice può decidere (e storicamente ha deciso) secondo la consuetudine, le credenze, i principi etici. La legge invece senza un giudice è muta, come se non esistesse. Non è diritto ma parodia del diritto. 
Nella sua lezione Kelsen prevedeva il fallimento di un'istituzione quale la Società delle Nazioni, e proponeva al suo posto l'istituzione di una Corte Internazionale, che avrebbe giudicato non in base a leggi o trattati, ma fondandosi sulle consuetudini e i principi del diritto internazionale, dei quali il più importante è quello dell'eguaglianza tra gli stati, del loro eguale diritto a prescindere dalla forza loro disponibile. 
Ad un organo del genere dovrebbero essere poste le questioni presentante nella prima parte di questo post, ed alle sue decisione ci si dovrebbe rimettere. 
La costruzione europea abbonda di leggi ma non ha un giudice che le faccia vivere. Che nessuno si azzardi a tirare in ballo la Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Lussemburgo) o la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Strasburgo). Istituzioni che non hanno avuto, e non avrebbero potuto avere, il minimo ruolo nel conflitto tra la Grecia e i suoi creditori-aguzzini.Questi Corti, peraltro, potrebbero fungere, nel breve termine, da surrogato del giudice di cui stiamo parlando: basterebbe che gli stati di comune accordo demandassero loro la soluzione delle questioni suesposte.
Ecco una battaglia che le forze democratiche ed europeiste potrebbero combattere. Invece di perseguire autentiche bufale come gli Stati Uniti d'Europa, propongano di rendere quella europea una comunità di diritto, di giuridicizzare i rapporti tra gli stati, invece di lasciarsi in balia dei rapporti di forza.
Naturalmente una simile proposta non sarebbe ben vista dagli attuali decisori politici degli stati forti dell'UE, che vogliono mantenere i loro privilegi. Sarebbe però interessante scoprire quali argomenti si potrebbero inventare contro una proposta simile, che è capace di suscitare consensi unanimi per la sua evidente civiltà e ragionevolezza.
Se l'UE non farà questo passo, e dunque non si distinguerà nettamente dal mondo che esiste al di fuori di essa, un mondo retto dalla legge del più forte, non è lontano il tempo in cui alla sua superfluità sostanziale si accompagnerà l'abrogazione formale. 


lunedì 20 luglio 2015

Un sonnambulo si sveglia, e vi spiega due cosette/1

Dopo aver letto Lettera aperta agli amici sonnambuli sento forte l'urgenza di introdurre un qualche elemento di sana realtà nel dibattito sulla Grecia, che si sta pericolosamente avvitando. Trovo davvero stupefacente che certi dati vengano costantemente ignorati pur di conservare una posizione ideologica. Ricostruiamo il quadro.
Nessuno, fra me e Marino&Fabrizio, suggeriva al governo greco di procedere senz'altro all'uscita dall'euro. Condividevamo tutti l'idea che nelle particolari condizioni greche l'uscita sarebbe stata foriera di di disastri, e che comunque avrebbe rappresentato un tradimento del mandato elettorale di SYRIZA. Credevamo però in altre due cose:

1) che i vertici europei volessero a tutti i costi evitare l'uscita della Grecia, per evitare l'effetto domino e quindi la disgregazione della moneta unica;

2) che fuori dall'euro e dalla UE qualcuno avrebbe aiutato la Grecia. Facevamo riferimento in particolare alla Russia e alla Cina. Ciò apriva il versante geopolitico della questione: gli USA avrebbero fatto di tutto per cercare di evitare che la Grecia cadesse nelle mani di Putin.

Dal canto mio, aggiungevo una considerazione che arricchiva il quadro senza modificarlo:

3) e cioè che i tedeschi non volessero affatto assumersi la responsabilità dell'uscita della Grecia, e che avrebbero di gran lunga preferito che tale responsabilità la assumesse il solo governo di Atene.

La diagnosi dunque era comune. Le idee sulla terapia invece divergevano, ma non così drammaticamente. Marino&Fabrizio ritenevano che Tsipras avrebbe dovuto utilizzare la minaccia dell'uscita dall'euro: io ritenevo il contrario, in ossequio al punto 3) e quanto spiegato qui. Ma la differenza, ad un occhio attento, si rivela minima. Il governo greco, di fatto, ha sempre minacciato la Grexit. In un abile gioco politico si è sempre spogliato di qualsiasi responsabilità in tal senso, designandola come un evento odioso ma inevitabile, al di fuori delle sue capacità di intervento, qualora i creditori non si fossero decisi a scendere a patti. Marino&Fabrizio suggerivano a Tsipras di minacciare di gettarsi dal burrone: Tsipras ha invece sempre danzato sull'orlo del precipizio (o altre metafore del genere), ripetendo che se fosse caduto non sarebbe stato per sua scelta. Dal punto di vista pratico le due strategie sono identiche: esse si fondano su un comune presupposto, ovvero che gli eurocrati temessero come la morte l'uscita della Grecia
Contemporaneamente, Tsipras cercava alleati extra-europei, in ossequio al punto 2), e lasciava a Varoufakis l'elaborazione di un piano B nella denegata ipotesi che i creditori li costringessero davvero a lasciare l'euro. Sul piano B torneremo più avanti. 

I mesi di trattative passavano, e i greci esportavano euro a tutto vantaggio della posizione negoziale del governo greco. Si aprivano le prime crepe nel fronte dei creditori, che però rapidamente si chiudevano. Gli incontri con Putin si moltiplicavano, senza però portare a nulla di molto concreto. A fine giugno l'ultimatum dei creditori, unitamente al congelamento degli ELA, mettevano in chiaro a Tsipras qual era l'intento della controparte: non arrivare ad un accordo, ma provocare una caduta del governo, sfruttando la divaricazione tra un governo deciso a resistere ed un popolo terrorizzato dall'eventualità della Grexit. Astutamente il governo indisse il referendum, volto a sventare tale tentativo di golpe mediante la dimostrazione che governo e popolo in realtà erano compatti. La manovra riuscì perfettamente. Tsipras presentò pochi giorni dopo le sue proposte ai creditori, volutamente moderate per non dare l'idea che questi ultimi fossero stati costretti a cedere su tutta la linea.
E fu lì che l'analisi condivisa da me, da Marino&Fabrizio, e dallo stesso governo greco, andò in pezzi.
Accadde l'inimmaginabile: il governo tedesco propose, in termini ufficiali, quella che può essere definita l'espulsione della Grecia dall'eurozona, accompagnata da pelosissimi ed inquietanti “aiuti umanitari”. Si dimostrò così falso l'assunto che i vertici europei volessero a tutti i costi evitare la Grexit per scongiurare i rischi di disgregazione dell'eurozona, e in particolare si dimostrò inconsistente l'idea che i tedeschi non volessero assumersi una simile responsabilità. Messi alle strette, se la sono assunta. E in una sola mossa, hanno sottratto ai greci qualsiasi leva negoziale.

Patetica, a questo punto, si rivelò l'idea che la Grecia avrebbe dovuto minacciare l'uscita dall'euro.
In una simile situazione, Tsipras doveva accettare l'orrendo accordo che gli veniva proposto, ovvero preparare l'uscita dall'euro. Un'uscita che persino un conclamato noeuro come Costas Lapavitsas ammetteva essere ingestibile. Quest'ultimo scenario appariva davvero disastroso agli occhi di Tsipras non perché mancasse un piano b, ma perché mancava la valuta estera necessaria a renderlo sostenibile. Il punto 2), infatti, si è dimostrato essere anch'esso estraneo alla realtà: Tsipras ha dichiarato di aver chiesto a Russia, Cina e USA aiuto finanziario in caso di Grexit, e di aver ricevuto solo risposte negative. La Grecia era dunque sola. Non c'era piano B che tenesse: non poteva esserlo l'emissione di IOU, espediente che avrebbe potuto funzionare per una settimana o due (vedi anche qui e qui). Il piano presentato dalla sinistra interna di SYRIZA, modellato attorno all'esperienza islandese, non aveva alcun senso: l'Islanda infatti dopo il referendum del 2009 (?) e il conseguente default entrò sotto la tutela FMI, intervento che le consentì (al prezzo di una severissima austerità) di preservare il valore della propria valuta. Peccato che uscire dall'euro avrebbe comportato il default della Grecia nei confronti del FMI. Dunque lo scanario islandese, oltre che austeritario quanto e più della permanenza nell'euro, era anche impossibile dal punto di vista pratico.

Naturalmente si può rimproverare a Tsipras di non aver scelto la strada del Grexit come prodromo di una rivoluzione socialista. In effetti, per gestire il repentino passaggio tra l'euro e la nuova valuta sarebbero state necessarie misure da comunismo di guerra, almeno per alleviare i disagi della popolazione. A chi condivide questa critica si possono dedicare le seguenti parole, citate qui:

È rivelatore del panorama politico europeo – anzi, mondiale – che i sogni di socialismo di ognuno sembravano poggiare sulle spalle del giovane primo ministro di un piccolo paese. Sembrava che ci fosse una fervente, irrazionale, quasi evangelica credenza, che un piccolo paese, affogato nei debiti e a corto di liquidità, avrebbe in qualche modo (e quel qualche modo non viene mai specificato) sconfitto il capitalismo globale, armato solo di bastoni e pietre. Quando sembrava che ciò non sarebbe accaduto, gli si sono rivoltati contro… Come è facile essere ideologicamente puri quando non si sta rischiando nulla. Quando non devi fronteggiare la mancanza di beni, il collasso della coesione sociale, il conflitto civile, la vita e la morte. Come è facile chiedere un accordo che evidentemente non sarebbe stato accettato da nessuno degli altri Stati membri della zona euro. Quanto è facile prendere decisioni coraggiose quando non si mette in gioco la propria pelle, quando non devi farei conti con il conto alla rovescia, come succede a me, delle ultime ventiquattro dosi del farmaco che impedisce a vostra madre di avere crisi epilettiche.

Ma questa non deve e non vuole essere una difesa d'ufficio di Tsipras, che del resto non ne ha bisogno. Queste righe rappresentano invece l'ammissione di un grave errore: credevo in ciò che è contenuto ai punti 1), 2) e 3), che si sono rivelati del tutto infondati: ecco la misura di quanto mi sono sbagliato. Marino&Fabrizio condividevano almeno i punti 1) e 2), ma siccome non vogliono ammettere di essersi sbagliati, devono imputare la sconfitta di Tsipras a debolezze e cedimenti di quest'ultimo, quasi che fosse un traditore del proprio paese.
C'è poi da aggiungere un ultimo punto. Schiacciare Tsipras non è stata gratis per la Germania e per l'UE. Gli eurocrati hanno finalmente gettato la maschera, rivelando il loro volto. Cominciamo ad avere articoli come questo, e riflessioni come questa, prima impensabili. Dovessi riassumere tutto ciò in un tweet, sceglierei questo.
Se  oggi è possibile una maggioranza euroscettica nel sud europa, è merito dell'esperienza del governo greco. Gli anti-euro dovrebbero fargli un monumento; invece ci sputano sopra. 

Rimangono alcune questioni sul tappeto. Questo accordo evita definitivamente l'uscita dall'euro dalla Grecia? Non è forse vero che è per colpa dell'euro che la Grecia si è trovata in questa situazione? Questa vicenda non dimostra che l'euro e la UE sono irriformabili, che l'internazionalismo è una favola, e che il nazionalismo è l'unica prospettiva per un movimento di sinistra? Ne parleremo nei prossimi giorni, perché concentrare queste questioni in unico post lo renderebbe pachidermico. A presto.






lunedì 13 luglio 2015

La loro lotta, la nostra sconfitta

Ho aspettato alcuni mesi prima di intervenire nuovamente su ciò che sta accadendo in Grecia. Non volevo fare commenti parziali sulle varie fasi del negoziato, ma aspettare che esso raggiungesse un esito e dare un giudizio complessivo. Il giudizio è che i greci hanno lottato, e noi abbiamo perso.

Questo è il testo dell'accordo sottoscritto da Tsipras la mattina dell'11 luglio. Consiglio di rileggerlo più volte: ogni volta è più orribile. E' un accordo indecente, ed è tale perché contiene una serie di misure che il negoziatore tedesco aveva elaborato in modo da renderle inaccettabili alla parte greca, in modo da provocarne il rifiuto. Non si spiegherebbe altrimenti il senso del demenziale diktat relativo ai tre giorni per fare le riforme (compresa la riscrittura del Codice di Procedura Civile!!!), e nemmeno quello del conferimento di beni pubblici in un trust da collocare in Lussemburgo, gestito da autorità tedesche. Nel testo originario elaborato da Schauble, queste misure erano proposte in alternativa all'uscita dall'euro della Grecia: non è un mistero per nessuno che quest'ultima opzione era quella preferita da Berlino e dai suoi satelliti (dai baltici all'Olanda). Il risultato è un accordo vergognoso, che io non avrei dubbi a respingere, se fossi un parlamentare greco. 
Non possiamo prevedere se il parlamento approverà tale piano. Sappiamo però che già ora si sprecano i commenti, se non gli insulti, a Tsipras: egli sarebbe il responsabile di un tradimento nei confronti dei greci, in particolare di quelli che hanno votato No allo storico referendum del 5 luglio.
Dovremmo però chiederci perché Tsipras ha accettato le richieste dei creditori, le quali (lo ribadiamo) erano così draconiane e assurde proprio per suscitare il suo rifiuto. 
La risposta non può essere trovata da chi si ostina a utilizzare lo schema interpretativo tipico dei movimenti anti-euro, che si è dimostrato del tutto inadeguato a dare conto della complessa realtà della crisi. 
Lo schema prevede due attori principali: il popolo prigioniero dell'euro, e l'élite che lo tiene incatenato. A livello internazionale la Grecia rappresenta il popolo, la Germania l'élite. Nello schema la prima dovrebbe tentare di liberarsi dalle catene europee, mentre la seconda dovrebbe cercare di ostacolarla, cercando di soffocare la volontà democratica: ecco perché nello schema è indispensabile che ci sia un qualche politico greco che tradisce il suo popolo, magari prezzolato dal tedesco. 
La realtà presenta un quadro esattamente opposto. Nessun popolo europeo è così disperatamente attaccato all'euro come quello greco; nessun popolo, e soprattutto nessun governo, è meno affezionato all'euro di quello tedesco. 
Ciò spiega lo scarsissimo potere negoziale a disposizione del governo greco: se avesse minacciato l'uscita dall'euro non avrebbe avuto alcun effetto sulla controparte tedesca, la quale avrebbe semplicemente colto l'occasione di addossare ai greci tutta la responsabilità del "Grexit"; d'altro canto se avesse semplicemente cominciato il percorso verso l'uscita avrebbe scatenaro l'ira dei cittadini greci. Ecco perché Tsipras (e in precedenza Varoufakis) hanno dato l'impressione, più di una volta, di "cedere" di fronte alle richieste delle controparti: perché non avevano un'alternativa oggettivamente percorribile. Discettare sulla buona o cattiva fede soggettiva di Tsipras è perfettamente inutile. 
A questo punto occorre chiedersi perché i greci siano così affezionati all'euro. Gli anti-euro hanno una risposta facile, valida per tutte le circostanze: sono i media che li obnubilano. I greci sarebbero dei decerebrati, facile preda della propaganda eurista. 
Questo argomento non ha alcuna credibilità. E' noto che quasi tutti i media greci, e in particolar modo le TV private, hanno fatto campagna per il Sì in occasione del referendum del 5 luglio. Questo comportamento, a detta di molti osservatori, ha avuto un effetto controproducente: la gente, non fidandosi dei media, ha seguito una condotta contraria alle loro direttive. I risultati si sono visti: 61% per il No. 
E' assai più probabile che i greci, nella loro intelligenza, percepiscano un altro elemento, ben illustrato qui. La Grecia è da generazioni strutturalmente dipendente dall'afflusso di capitali esteri, necessari per colmare il suo intramontabile deficit di partite correnti. Nei primi anni dell'euro tale afflusso è stato copioso; poi si è interrotto nel 2008, a seguito della crisi di Wall Street. Da allora ha sopperito il meccanismo di rifinanziamento automatico Target2. Se la Grecia uscisse dall'euro dovrebbe fare a meno di tale meccanismo; non potrebbe contare sul sostegno del FMI, dato che l'uscita coinciderebbe con un default nei confronti di tale istituto. In poche parole, la Grecia si troverebbe, nel giro di poche settimane, a dover raggiungere un risultato mai toccato negli ultimi decenni: l'avanzo di partite correnti. Dato che l'economia greca non è votata all'esportazione, e dunque i benefici della svalutazione della neo-dracma sarebbero minimi, ciò non potrebbe che essere conseguito tagliando la domanda di beni esteri: in sostanza, con un'austerità maggiore dell'attuale. Tutto questo senza contare i costi dell'adozione della nuova moneta e il rischio di perdere i finanziamenti europei (che valgono quasi il 15% del pil greco).  
 
I greci si trovano in una padella, i tedeschi vorrebbero gettarli nella brace. Non è così sorprendente che Tsipras non abbia gettato spontaneamente il proprio paese nella brace. 

Si può pertanto concludere che i greci hanno fatto tutto il possibile, a partire dalle elezioni di gennaio, per migliorare la loro condizione. Hanno combattuto con ogni mezzo a loro disposizione, utilizzando fino in fondo la sovranità che gli rimane*. Non è corretto affermare che non hanno raggiunto alcun risultato: hanno costretto Merkel e Schauble a gettare la maschera europeista. Hanno mostrato fino a che punto i ceti politici degli stati europei disprezzino la democrazia. Hanno dimostrato come nell'Unione Europea viga la legge del più forte, come l'estorsione sia considerata un mezzo ordinario di gestione dei rapporti tra nazioni. Questi fatti ieri erano condivisi da nicchie; oggi sono patrimonio dell'opinione pubblica mondiale. Un risultato non da poco. 

La storia di questi cinque mesi sarà ricordata come il momento in cui il popolo più debole e ricattabile dell'eurozona tentò di piegare le leggi dell'euro, considerate fino ad allora immodificabili; e di come il paese egemone, la Germania, circondata da un codazzo di alleati e dall'ignavia di chi avrebbe potuto tenerle testa, dovette impiegare tutto la propria potenza economica e diplomatica per schiacciarlo. 
I veri sconfitti non sono i greci. I veri sconfitti siamo noi, che non abbiamo saputo fare niente per aiutarli. Che non abbiamo saputo fare pressione sui nostri governi, mentre criticavamo ogni manchevolezza del loro. Che non ci siamo ancora resi conto che ogni torto fatto ai greci verrà, prima o dopo, fatto anche a noi. 




 *Chi ritiene che non ne disponessero farà bene a rileggere il testo dell'accordo. Quella è davvero una perdita conclamata di sovranità.

mercoledì 10 giugno 2015

Il reddito di cittadinanza e la Costituzione

Ha sollevato un certo stupore, negli ambienti anti-sistema, scoprire una netta convergenza tra Matteo Renzi e personalità insospettabili nella contrarietà al reddito di cittadinanza, così come proposto dal M5S. Alcuni fini giuristi si sono spinti a dire che il reddito di cittadinanza sarebbe addirittura contrario allo spirito, se non alla lettera, della Carta Costituzionale.
Avevamo già individuato alcuni strani casi di coincidenza di vedute tra esponenti dell'antisistema e del mainstream: clamorosa quella tra Schauble e i noeuro.
Non è mai facile comprendere le ragioni di queste sorprendenti convergenze. Con riferimento al tema specifico dobbiamo dire che il reddito di cittadinanza, in sé, non ci entusiasma: meglio sarebbe un programma di lavoro garantito coadiuvato da una riforma dei servizi pubblici all'insegna della gratuità (come spiegato qui). Stiamo parlando, oltretutto, di uno strumento "da maneggiare con cura", e che potrebbe anche sortire effetti controproducenti:


Tuttavia non ci verrebbe mai in mente di condurre crociate contro il reddito di cittadinanza; tantomeno potremmo pensare di mentire spudoratamente per attaccare quell'idea, come si fa quando si dice che essa è contraria a Costituzione.
Sul punto, è bene leggere questo ottimo articolo,
il quale giustamente richiama la disposizione costituzionale rilevante in materia, il secondo comma dell'art. 38:

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. 

Verrebbe quasi da dire che introdurre il reddito di cittadinanza risponda ad un obbligo costituzionale, altro che divieto!
Nella sua raffinatezza, la Costituzione italiana menziona un concetto keynesiano come la disoccupazione "involontaria". Si prende quindi atto che, in certi casi, il sistema economico non produce abbastanza impieghi per tutti. Se è vero che è compito della Repubblica garantire a tutti l'effettivo esercizio di un diritto al lavoro (art. 4 Cost.), è anche vero che, nel frattempo, non si può che fornire una qualche assistenza a chi un impiego non lo trova, e non lo può trovare.
Questo è quanto. Ora però vorrei inserire alcune considerazioni un po' più originali.
Quando si accenna alla non volontarietà, bisogna intendersi su quali siano i limiti della stessa. Se mi viene offerto un impiego non retribuito, ad esempio, e io lo rifiuto, mi ritrovo disoccupato in conseguenza di una mia scelta. Ovviamente questo grado di formalismo è inaccettabile. Ma allora qual è il limite entro il quale il rifiuto di un impiego non porta a considerare la disoccupazione come volontaria? 
Per capirlo, è consigliabile fare riferimento al medesimo testo costituzionale. Possiamo individuare due parametri: quello della dignità della persona e quello della sufficiente retribuzione
Del primo si ha un riconoscimento espresso all'art. 3 (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale...), e soprattutto all'art. 41, laddove si afferma che "l'iniziativa economica privata (...) non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".
Del secondo si ha un riconoscimento espresso al primo comma dell'art. 36, che si ricollega al tema della dignità:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Per le donne le condizioni diventano ancora più stringenti, come testimonia l'art. 37:

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Se ne può trarre la seguente indicazione: ogni cittadino ha sì il diritto di lavorare, ma quando si parla di "lavoro" in Costituzione si intende un impiego che, da un lato, non urta la dignità della persona, e all'altro garantisce una retribuzione adeguata. Un lavoro dignitoso, in una parola. Ne consegue che non può essere considerata involontaria la disoccupazione di chi rifiuti un impiego non dignitoso, ovvero un impiego che non gli garantisca una retribuzione adeguata.
Queste considerazioni, peraltro, evidenziano un limite della proposta dei 5 stelle: il cittadino disoccupato perde il reddito di cittadinanza se rifiuta tre offerte di lavoro, qualunque esse siano. La necessità di evitare che la persona sia costretta ad accettare qualsiasi lavoro, messa in evidenza da Grillo, non viene assicurata in misura definitiva. 
Ancora una volta, sarebbe opportuno non lasciare al mercato la scelta dell'impiego cui adibire i disoccupati, bensì organizzare un programma di lavoro garantito che sappia valorizzare le competenze e le vocazioni di ciascuno, garantendo un trattamento retributivo adeguato.