DEMOLIAMO LUOGHI COMUNI

mercoledì 2 settembre 2015

Smettere di essere follower

Ho cominciato a esplorare l'Antisistema web nel 2009. All'inizio ne ero completamente affascinato. Ho frequentato i siti e i blog più stravaganti, e ho seguito, con ritmo quotidiano, le evoluzioni dei mille "autori" che popolano questo microcosmo. Microcosmo che ben conosco, e di cui potrei stendere una mappa anche migliore di questa. Grazie a queste frequentazioni ho potuto conoscere molte persone in cui altrimenti non mi sarei imbattuto. Lo ammetto: è stato anche svago. Per anni, tuttavia, ho pensato che., oltre che a passare il tempo, la blogosfera potesse fungere da università parallela: un luogo dove entrare in contatto con insegnanti ed insegnamenti liberi dal conformismo che ammorba le vere università e le agenzie culturali in genere. Pensavo che attraverso l'Antisistema web avrei potuto apprendere le nozioni indispensabili per affrontare le storture di questo mondo orrendo, o almeno per non esserne complice. Tutto ciò presupponeva che le risorse intellettuali presenti nella blogosfera, e più precisamente la qualità intellettuale degli "autori" che le danno forma potesse in qualche modo rivaleggiare con quella del mainstream. Errore madornale.
Ciò che ho imparato negli ultimi tempi, e precisamente nell'ultimo anno, è che, semplicemente, non c'è confronto. Gli intellettuali mainstream, siano essi apertamente "di regime" ovvero non schierati, sono in grado di dare un'interpretazione coerente della realtà; gli "autori" Antisistema sono semplici macchiette. Prendere Diego Fusaro a punto di riferimento per la filosofia, ovvero Alberto Bagnai o per l'economia, o anche Giorgio Cremaschi o Mimmo Porcaro per la politica, sancisce la definitiva disfatta dell'Antisistema, e ciò sia per il versante della capacità di analisi che per la semplice credibilità.
D'altro canto l'immenso divario  tra i due gruppi emerge solo se si contrappone politicamente Sistema e Antisistema, come facevo io fino a qualche tempo fa: il che è molto sciocco. La contrapposizione avrebbe senso se l'Antisistema si ponesse in qualche modo a contrasto del Sistema. Ma non è ciò che avviene: gli "autori" non si preoccupano di organizzare un simile contrasto, bensì della propria autopromozione. C'è chi ha la vocazione di scrivere libri, e usa la propria popolarità web per farli vendere. C'è chi è bravo nelle recite televisive, e ottiene i riflettori. C'è chi ha la passione di organizzare micro-partiti e micro-sindacati, e fa quello. Ognuno secondo il suo "talento".
In questa dinamica è fondamentale il ruolo del follower. Nell'economia di internet il follower è merce. I piccoli capitalisti dell'Antisistema ne accumulano il più possibile, se necessario contendendosela tra di loro. Attorno alla luce emanata dal singolo "autore" sciama il nugolo dei followers, orgogliosi del loro commento sul Blog, del loro commento su Facebook, del loro Tweet.
Qual è il profilo del follower ordinario? E' tipicamente un deluso dal Sistema, ovvero qualcuno che non riesce ad adattarvisi. In quanto tale, potrebbe essere il soggetto migliore per dare corpo ad una alternativa. Il suo guaio è che abituato ad avere dei punti di riferimento saldi: non potendo più esserlo il Sistema, ne cerca altri; e il più delle volte viene catturato dalla luce dei protagonisti dell'Antisistema. Una volta catturato, il follower medio è contento: ha trovato quello che cercava; qualcuno che gli dicesse cosa pensare. L'Antisistema, dunque, non è l'incubatrice dell'alternativa, ma il suo sedativo.
Questa situazione non è figlia del caso. E' dovuta ai rapporti di forza reali tra il Sistema (che altro non è che il capitalismo) e chi gli si oppone, o pretende di opporvisi. Questo aspetto è molto importante, e dovrà essere approfondito separatamente. Per ora vorrei limitarmi ad esporre una proposta operativa.
Questo blog ha la funzione di esporre pubblicamente non tanto le mie riflessioni, che possono interessare fino a un certo punto, quanto i miei sforzi di colmare l'immenso gap che mi divide dagli intellettuali mainstream. Intendo impadronirmi di un pensiero che sia davvero capace di mettere in discussione l'egemonia del Sistema. Occorrerà intraprendere un percorso che durerà anni, fatto di letture, studi, interventi, esperienze, segnalazioni...
Il blog serve a esporre pubblicamente i risultati e le tappe di tale percorso. Scrivere mi aiuterà a mettere ordine nei pensieri. Anche se non dovessi avere un solo lettore (ipotesi plausibile), l'esercizio non sarebbe vano.
Per fare tutto questo non mi servono i commenti dei lettori.
Il commento, così tipico dei blog, è un meccanismo che più di altri induce a diventare follower. La dialettica tra autore e commentatore è chiaramente asimmetrica: somiglia a quella tra autore di uno spettacolo e spettatori. Alla fine dello spettacolo il pubblico fischia o applaude: in un caso come nell'altro è chi calca il palcoscenico il centro della relazione, mentre i membri del pubblico ne sono i satelliti. L'autore è il soggetto attivo; gli spettatori/commentatori sono soggetti passivi.
A me tutto questo non interessa. Non sono qui per farmi un pubblico. Non ho da insegnare, ma da apprendere. Se qualcuno vuole aiutarmi nell'apprendimento con osservazioni e critiche a quanto affermo si prende il disturbo, e per certi versi la responsabilità, di inviarmi per mail un suo scritto, di dimensioni ragionevoli, che verrà pubblicato come un post autonomo, rigorosamente con nome e cognome. Ciò vale anche per chi intende inviarmi qualcosa di suo che non rappresenta una risposta ad un mio post. Tutto ciò che mi scriverete sarà pubblicato, ovvero esposto al pubblico ludibrio (dipende da quel che si scrive).
Da questo momento, pertanto, i commenti sono disabilitati. Chi vuole intervenire lo faccia sfruttando l'indirizzo mail indicato a lato. Chi non ha nulla da dire taccia.




martedì 21 luglio 2015

Cos'è che davvero manca all'Europa

A lungo è stato sostenuto che ciò che mancava nell'eurozona fosse un prestatore di ultima istanza. Altri lamentano l'assenza di un autentico bilancio federale, o quantomeno di un coordinamento tra politica fiscale e monetaria. In molti sottolineano il deficit democratico delle istituzioni europee, alcuni denunciano l'assenza di un popolo europeo. Ma ciò che davvero manca all'Europa di oggi è tutt'altra cosa. 
L'UE, che si presenta come un'unione di stati, è in realtà un'arena di stati. Nello scontro le varie parti fanno appello a  regole e principi variamente individuate. Abbiamo tutti sentito dire:

1) che un taglio o una ristrutturazione del debito sono vietate dai Trattati UE.
2) che è possibile la sospensione temporanea di uno stato membro dall'eurozona.
3) che non è giuridicamente possibile l'uscita di uno stato membro dalla sola eurozona.
4) che non è possibile costringere uno stato membro a lasciare l'eurozona.
5) che se la BCE avesse aumentanto la dose di liquidità straordinaria alle banche greche avrebbe violato il proprio statuto.
6) che se NON lo avesse fatto avrebbe violato i Trattati.
7) che la Germania avrebbe dovuto saldare i propri debiti di guerra.
8) che tali debiti erano stati condonati in occasione della riunificazione tedesca. 
ecc ecc ecc...

E questo elenchino riassume solo una parte delle questioni sollevate dalla crisi debitoria degli stati dell'eurozona. Il Fiscal Compact è compatibile col resto dei Trattati UE? Le riforme imposte dalla Troika sono compatibili coi diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione? Ed è vero che la BCE ha come unico scopo mantenere la stabilità dei prezzi, e non anche promuovere crescita e occupazione? 
Nell'attuale situazione, ogni stato porta avanti la sua propria soluzione a queste questioni. Date certe fonti normative (i Trattati, i principi di diritto internazionale, le singole Costituzioni), ognuno fabbrica l'interpretazione che più gli conviene. Questa è una situazione di assenza di diritto. Se i contendenti sono lasciati liberi di decidere chi tra loro ha ragione, deciderà la forza. Quando i contendenti sono stati, deciderà lo stato più forte. E' pertanto logico che la Germania abbia potuto schiacciare la Grecia, imponendo la sua interpretazione, aiutata dagli altri stati dell'Unione in virtà dell'effetto band-wagoning. E così il tentativo di Tsipras, che doveva suonare la tromba della ribellione europea, si è concluso in una specie di stupro di gruppo. 
Ora, quella della forza è sempre stata la regola dei rapporti tra stati. Il diritto internazionale ha sempre funto da travestimento di tale realtà. Quella internazionale non è mai stata davvero una comunità di diritto. Ed è questo il vulnus principale dell'UE: non aver introdotto alcun elemento di vera novità in tale scenario. Vince il più forte, come sempre. Perché il più debole abbia delle chanches, serve il diritto.
Ma come si trasforma una comunità (di stati come di individui) in una comunità retta dal diritto? 
Le migliori menti del '900 hanno già fornito una risposta a questa domanda. 
Hans Kelsen, nel suo Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale (1920) ha spiegato come meglio non si poteva che l'unico strumento di costruire una pacifica convivenza tra stati, eliminando dalla scena il sopruso e la prepotenza di quelli più forti, non sta nella costruzione di un unico immenso stato federale, bensì nell'istituzione di un'unica Corte di Giustizia. Un giudice, insomma, che in piena indipendenza sia deputato a dirimere i contrasti tra stati, distribuendo torti e ragioni e affermando il diritto. 
Kelsen, in una ricostruzione che non risparmia riferimenti all'antropologia, dimostra come nelle comunità umane è sempre la giurisdizione a precedere la legislazione. Prima si istituisce il giudice, e solo dopo si pensa a elaborare un testo normativo che ne vincoli la giurisprudenza. Questo perché la presenza di un soggetto terzo che stabilisca chi ha ragione tra i contendenti è la condizione minima e irrinunciabile del diritto. Il giudice può decidere (e storicamente ha deciso) secondo la consuetudine, le credenze, i principi etici. La legge invece senza un giudice è muta, come se non esistesse. Non è diritto ma parodia del diritto. 
Nella sua lezione Kelsen prevedeva il fallimento di un'istituzione quale la Società delle Nazioni, e proponeva al suo posto l'istituzione di una Corte Internazionale, che avrebbe giudicato non in base a leggi o trattati, ma fondandosi sulle consuetudini e i principi del diritto internazionale, dei quali il più importante è quello dell'eguaglianza tra gli stati, del loro eguale diritto a prescindere dalla forza loro disponibile. 
Ad un organo del genere dovrebbero essere poste le questioni presentante nella prima parte di questo post, ed alle sue decisione ci si dovrebbe rimettere. 
La costruzione europea abbonda di leggi ma non ha un giudice che le faccia vivere. Che nessuno si azzardi a tirare in ballo la Corte di Giustizia dell'Unione Europea (Lussemburgo) o la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Strasburgo). Istituzioni che non hanno avuto, e non avrebbero potuto avere, il minimo ruolo nel conflitto tra la Grecia e i suoi creditori-aguzzini.Questi Corti, peraltro, potrebbero fungere, nel breve termine, da surrogato del giudice di cui stiamo parlando: basterebbe che gli stati di comune accordo demandassero loro la soluzione delle questioni suesposte.
Ecco una battaglia che le forze democratiche ed europeiste potrebbero combattere. Invece di perseguire autentiche bufale come gli Stati Uniti d'Europa, propongano di rendere quella europea una comunità di diritto, di giuridicizzare i rapporti tra gli stati, invece di lasciarsi in balia dei rapporti di forza.
Naturalmente una simile proposta non sarebbe ben vista dagli attuali decisori politici degli stati forti dell'UE, che vogliono mantenere i loro privilegi. Sarebbe però interessante scoprire quali argomenti si potrebbero inventare contro una proposta simile, che è capace di suscitare consensi unanimi per la sua evidente civiltà e ragionevolezza.
Se l'UE non farà questo passo, e dunque non si distinguerà nettamente dal mondo che esiste al di fuori di essa, un mondo retto dalla legge del più forte, non è lontano il tempo in cui alla sua superfluità sostanziale si accompagnerà l'abrogazione formale. 


lunedì 20 luglio 2015

Un sonnambulo si sveglia, e vi spiega due cosette/1

Dopo aver letto Lettera aperta agli amici sonnambuli sento forte l'urgenza di introdurre un qualche elemento di sana realtà nel dibattito sulla Grecia, che si sta pericolosamente avvitando. Trovo davvero stupefacente che certi dati vengano costantemente ignorati pur di conservare una posizione ideologica. Ricostruiamo il quadro.
Nessuno, fra me e Marino&Fabrizio, suggeriva al governo greco di procedere senz'altro all'uscita dall'euro. Condividevamo tutti l'idea che nelle particolari condizioni greche l'uscita sarebbe stata foriera di di disastri, e che comunque avrebbe rappresentato un tradimento del mandato elettorale di SYRIZA. Credevamo però in altre due cose:

1) che i vertici europei volessero a tutti i costi evitare l'uscita della Grecia, per evitare l'effetto domino e quindi la disgregazione della moneta unica;

2) che fuori dall'euro e dalla UE qualcuno avrebbe aiutato la Grecia. Facevamo riferimento in particolare alla Russia e alla Cina. Ciò apriva il versante geopolitico della questione: gli USA avrebbero fatto di tutto per cercare di evitare che la Grecia cadesse nelle mani di Putin.

Dal canto mio, aggiungevo una considerazione che arricchiva il quadro senza modificarlo:

3) e cioè che i tedeschi non volessero affatto assumersi la responsabilità dell'uscita della Grecia, e che avrebbero di gran lunga preferito che tale responsabilità la assumesse il solo governo di Atene.

La diagnosi dunque era comune. Le idee sulla terapia invece divergevano, ma non così drammaticamente. Marino&Fabrizio ritenevano che Tsipras avrebbe dovuto utilizzare la minaccia dell'uscita dall'euro: io ritenevo il contrario, in ossequio al punto 3) e quanto spiegato qui. Ma la differenza, ad un occhio attento, si rivela minima. Il governo greco, di fatto, ha sempre minacciato la Grexit. In un abile gioco politico si è sempre spogliato di qualsiasi responsabilità in tal senso, designandola come un evento odioso ma inevitabile, al di fuori delle sue capacità di intervento, qualora i creditori non si fossero decisi a scendere a patti. Marino&Fabrizio suggerivano a Tsipras di minacciare di gettarsi dal burrone: Tsipras ha invece sempre danzato sull'orlo del precipizio (o altre metafore del genere), ripetendo che se fosse caduto non sarebbe stato per sua scelta. Dal punto di vista pratico le due strategie sono identiche: esse si fondano su un comune presupposto, ovvero che gli eurocrati temessero come la morte l'uscita della Grecia
Contemporaneamente, Tsipras cercava alleati extra-europei, in ossequio al punto 2), e lasciava a Varoufakis l'elaborazione di un piano B nella denegata ipotesi che i creditori li costringessero davvero a lasciare l'euro. Sul piano B torneremo più avanti. 

I mesi di trattative passavano, e i greci esportavano euro a tutto vantaggio della posizione negoziale del governo greco. Si aprivano le prime crepe nel fronte dei creditori, che però rapidamente si chiudevano. Gli incontri con Putin si moltiplicavano, senza però portare a nulla di molto concreto. A fine giugno l'ultimatum dei creditori, unitamente al congelamento degli ELA, mettevano in chiaro a Tsipras qual era l'intento della controparte: non arrivare ad un accordo, ma provocare una caduta del governo, sfruttando la divaricazione tra un governo deciso a resistere ed un popolo terrorizzato dall'eventualità della Grexit. Astutamente il governo indisse il referendum, volto a sventare tale tentativo di golpe mediante la dimostrazione che governo e popolo in realtà erano compatti. La manovra riuscì perfettamente. Tsipras presentò pochi giorni dopo le sue proposte ai creditori, volutamente moderate per non dare l'idea che questi ultimi fossero stati costretti a cedere su tutta la linea.
E fu lì che l'analisi condivisa da me, da Marino&Fabrizio, e dallo stesso governo greco, andò in pezzi.
Accadde l'inimmaginabile: il governo tedesco propose, in termini ufficiali, quella che può essere definita l'espulsione della Grecia dall'eurozona, accompagnata da pelosissimi ed inquietanti “aiuti umanitari”. Si dimostrò così falso l'assunto che i vertici europei volessero a tutti i costi evitare la Grexit per scongiurare i rischi di disgregazione dell'eurozona, e in particolare si dimostrò inconsistente l'idea che i tedeschi non volessero assumersi una simile responsabilità. Messi alle strette, se la sono assunta. E in una sola mossa, hanno sottratto ai greci qualsiasi leva negoziale.

Patetica, a questo punto, si rivelò l'idea che la Grecia avrebbe dovuto minacciare l'uscita dall'euro.
In una simile situazione, Tsipras doveva accettare l'orrendo accordo che gli veniva proposto, ovvero preparare l'uscita dall'euro. Un'uscita che persino un conclamato noeuro come Costas Lapavitsas ammetteva essere ingestibile. Quest'ultimo scenario appariva davvero disastroso agli occhi di Tsipras non perché mancasse un piano b, ma perché mancava la valuta estera necessaria a renderlo sostenibile. Il punto 2), infatti, si è dimostrato essere anch'esso estraneo alla realtà: Tsipras ha dichiarato di aver chiesto a Russia, Cina e USA aiuto finanziario in caso di Grexit, e di aver ricevuto solo risposte negative. La Grecia era dunque sola. Non c'era piano B che tenesse: non poteva esserlo l'emissione di IOU, espediente che avrebbe potuto funzionare per una settimana o due (vedi anche qui e qui). Il piano presentato dalla sinistra interna di SYRIZA, modellato attorno all'esperienza islandese, non aveva alcun senso: l'Islanda infatti dopo il referendum del 2009 (?) e il conseguente default entrò sotto la tutela FMI, intervento che le consentì (al prezzo di una severissima austerità) di preservare il valore della propria valuta. Peccato che uscire dall'euro avrebbe comportato il default della Grecia nei confronti del FMI. Dunque lo scanario islandese, oltre che austeritario quanto e più della permanenza nell'euro, era anche impossibile dal punto di vista pratico.

Naturalmente si può rimproverare a Tsipras di non aver scelto la strada del Grexit come prodromo di una rivoluzione socialista. In effetti, per gestire il repentino passaggio tra l'euro e la nuova valuta sarebbero state necessarie misure da comunismo di guerra, almeno per alleviare i disagi della popolazione. A chi condivide questa critica si possono dedicare le seguenti parole, citate qui:

È rivelatore del panorama politico europeo – anzi, mondiale – che i sogni di socialismo di ognuno sembravano poggiare sulle spalle del giovane primo ministro di un piccolo paese. Sembrava che ci fosse una fervente, irrazionale, quasi evangelica credenza, che un piccolo paese, affogato nei debiti e a corto di liquidità, avrebbe in qualche modo (e quel qualche modo non viene mai specificato) sconfitto il capitalismo globale, armato solo di bastoni e pietre. Quando sembrava che ciò non sarebbe accaduto, gli si sono rivoltati contro… Come è facile essere ideologicamente puri quando non si sta rischiando nulla. Quando non devi fronteggiare la mancanza di beni, il collasso della coesione sociale, il conflitto civile, la vita e la morte. Come è facile chiedere un accordo che evidentemente non sarebbe stato accettato da nessuno degli altri Stati membri della zona euro. Quanto è facile prendere decisioni coraggiose quando non si mette in gioco la propria pelle, quando non devi farei conti con il conto alla rovescia, come succede a me, delle ultime ventiquattro dosi del farmaco che impedisce a vostra madre di avere crisi epilettiche.

Ma questa non deve e non vuole essere una difesa d'ufficio di Tsipras, che del resto non ne ha bisogno. Queste righe rappresentano invece l'ammissione di un grave errore: credevo in ciò che è contenuto ai punti 1), 2) e 3), che si sono rivelati del tutto infondati: ecco la misura di quanto mi sono sbagliato. Marino&Fabrizio condividevano almeno i punti 1) e 2), ma siccome non vogliono ammettere di essersi sbagliati, devono imputare la sconfitta di Tsipras a debolezze e cedimenti di quest'ultimo, quasi che fosse un traditore del proprio paese.
C'è poi da aggiungere un ultimo punto. Schiacciare Tsipras non è stata gratis per la Germania e per l'UE. Gli eurocrati hanno finalmente gettato la maschera, rivelando il loro volto. Cominciamo ad avere articoli come questo, e riflessioni come questa, prima impensabili. Dovessi riassumere tutto ciò in un tweet, sceglierei questo.
Se  oggi è possibile una maggioranza euroscettica nel sud europa, è merito dell'esperienza del governo greco. Gli anti-euro dovrebbero fargli un monumento; invece ci sputano sopra. 

Rimangono alcune questioni sul tappeto. Questo accordo evita definitivamente l'uscita dall'euro dalla Grecia? Non è forse vero che è per colpa dell'euro che la Grecia si è trovata in questa situazione? Questa vicenda non dimostra che l'euro e la UE sono irriformabili, che l'internazionalismo è una favola, e che il nazionalismo è l'unica prospettiva per un movimento di sinistra? Ne parleremo nei prossimi giorni, perché concentrare queste questioni in unico post lo renderebbe pachidermico. A presto.






lunedì 13 luglio 2015

La loro lotta, la nostra sconfitta

Ho aspettato alcuni mesi prima di intervenire nuovamente su ciò che sta accadendo in Grecia. Non volevo fare commenti parziali sulle varie fasi del negoziato, ma aspettare che esso raggiungesse un esito e dare un giudizio complessivo. Il giudizio è che i greci hanno lottato, e noi abbiamo perso.

Questo è il testo dell'accordo sottoscritto da Tsipras la mattina dell'11 luglio. Consiglio di rileggerlo più volte: ogni volta è più orribile. E' un accordo indecente, ed è tale perché contiene una serie di misure che il negoziatore tedesco aveva elaborato in modo da renderle inaccettabili alla parte greca, in modo da provocarne il rifiuto. Non si spiegherebbe altrimenti il senso del demenziale diktat relativo ai tre giorni per fare le riforme (compresa la riscrittura del Codice di Procedura Civile!!!), e nemmeno quello del conferimento di beni pubblici in un trust da collocare in Lussemburgo, gestito da autorità tedesche. Nel testo originario elaborato da Schauble, queste misure erano proposte in alternativa all'uscita dall'euro della Grecia: non è un mistero per nessuno che quest'ultima opzione era quella preferita da Berlino e dai suoi satelliti (dai baltici all'Olanda). Il risultato è un accordo vergognoso, che io non avrei dubbi a respingere, se fossi un parlamentare greco. 
Non possiamo prevedere se il parlamento approverà tale piano. Sappiamo però che già ora si sprecano i commenti, se non gli insulti, a Tsipras: egli sarebbe il responsabile di un tradimento nei confronti dei greci, in particolare di quelli che hanno votato No allo storico referendum del 5 luglio.
Dovremmo però chiederci perché Tsipras ha accettato le richieste dei creditori, le quali (lo ribadiamo) erano così draconiane e assurde proprio per suscitare il suo rifiuto. 
La risposta non può essere trovata da chi si ostina a utilizzare lo schema interpretativo tipico dei movimenti anti-euro, che si è dimostrato del tutto inadeguato a dare conto della complessa realtà della crisi. 
Lo schema prevede due attori principali: il popolo prigioniero dell'euro, e l'élite che lo tiene incatenato. A livello internazionale la Grecia rappresenta il popolo, la Germania l'élite. Nello schema la prima dovrebbe tentare di liberarsi dalle catene europee, mentre la seconda dovrebbe cercare di ostacolarla, cercando di soffocare la volontà democratica: ecco perché nello schema è indispensabile che ci sia un qualche politico greco che tradisce il suo popolo, magari prezzolato dal tedesco. 
La realtà presenta un quadro esattamente opposto. Nessun popolo europeo è così disperatamente attaccato all'euro come quello greco; nessun popolo, e soprattutto nessun governo, è meno affezionato all'euro di quello tedesco. 
Ciò spiega lo scarsissimo potere negoziale a disposizione del governo greco: se avesse minacciato l'uscita dall'euro non avrebbe avuto alcun effetto sulla controparte tedesca, la quale avrebbe semplicemente colto l'occasione di addossare ai greci tutta la responsabilità del "Grexit"; d'altro canto se avesse semplicemente cominciato il percorso verso l'uscita avrebbe scatenaro l'ira dei cittadini greci. Ecco perché Tsipras (e in precedenza Varoufakis) hanno dato l'impressione, più di una volta, di "cedere" di fronte alle richieste delle controparti: perché non avevano un'alternativa oggettivamente percorribile. Discettare sulla buona o cattiva fede soggettiva di Tsipras è perfettamente inutile. 
A questo punto occorre chiedersi perché i greci siano così affezionati all'euro. Gli anti-euro hanno una risposta facile, valida per tutte le circostanze: sono i media che li obnubilano. I greci sarebbero dei decerebrati, facile preda della propaganda eurista. 
Questo argomento non ha alcuna credibilità. E' noto che quasi tutti i media greci, e in particolar modo le TV private, hanno fatto campagna per il Sì in occasione del referendum del 5 luglio. Questo comportamento, a detta di molti osservatori, ha avuto un effetto controproducente: la gente, non fidandosi dei media, ha seguito una condotta contraria alle loro direttive. I risultati si sono visti: 61% per il No. 
E' assai più probabile che i greci, nella loro intelligenza, percepiscano un altro elemento, ben illustrato qui. La Grecia è da generazioni strutturalmente dipendente dall'afflusso di capitali esteri, necessari per colmare il suo intramontabile deficit di partite correnti. Nei primi anni dell'euro tale afflusso è stato copioso; poi si è interrotto nel 2008, a seguito della crisi di Wall Street. Da allora ha sopperito il meccanismo di rifinanziamento automatico Target2. Se la Grecia uscisse dall'euro dovrebbe fare a meno di tale meccanismo; non potrebbe contare sul sostegno del FMI, dato che l'uscita coinciderebbe con un default nei confronti di tale istituto. In poche parole, la Grecia si troverebbe, nel giro di poche settimane, a dover raggiungere un risultato mai toccato negli ultimi decenni: l'avanzo di partite correnti. Dato che l'economia greca non è votata all'esportazione, e dunque i benefici della svalutazione della neo-dracma sarebbero minimi, ciò non potrebbe che essere conseguito tagliando la domanda di beni esteri: in sostanza, con un'austerità maggiore dell'attuale. Tutto questo senza contare i costi dell'adozione della nuova moneta e il rischio di perdere i finanziamenti europei (che valgono quasi il 15% del pil greco).  
 
I greci si trovano in una padella, i tedeschi vorrebbero gettarli nella brace. Non è così sorprendente che Tsipras non abbia gettato spontaneamente il proprio paese nella brace. 

Si può pertanto concludere che i greci hanno fatto tutto il possibile, a partire dalle elezioni di gennaio, per migliorare la loro condizione. Hanno combattuto con ogni mezzo a loro disposizione, utilizzando fino in fondo la sovranità che gli rimane*. Non è corretto affermare che non hanno raggiunto alcun risultato: hanno costretto Merkel e Schauble a gettare la maschera europeista. Hanno mostrato fino a che punto i ceti politici degli stati europei disprezzino la democrazia. Hanno dimostrato come nell'Unione Europea viga la legge del più forte, come l'estorsione sia considerata un mezzo ordinario di gestione dei rapporti tra nazioni. Questi fatti ieri erano condivisi da nicchie; oggi sono patrimonio dell'opinione pubblica mondiale. Un risultato non da poco. 

La storia di questi cinque mesi sarà ricordata come il momento in cui il popolo più debole e ricattabile dell'eurozona tentò di piegare le leggi dell'euro, considerate fino ad allora immodificabili; e di come il paese egemone, la Germania, circondata da un codazzo di alleati e dall'ignavia di chi avrebbe potuto tenerle testa, dovette impiegare tutto la propria potenza economica e diplomatica per schiacciarlo. 
I veri sconfitti non sono i greci. I veri sconfitti siamo noi, che non abbiamo saputo fare niente per aiutarli. Che non abbiamo saputo fare pressione sui nostri governi, mentre criticavamo ogni manchevolezza del loro. Che non ci siamo ancora resi conto che ogni torto fatto ai greci verrà, prima o dopo, fatto anche a noi. 




 *Chi ritiene che non ne disponessero farà bene a rileggere il testo dell'accordo. Quella è davvero una perdita conclamata di sovranità.

mercoledì 10 giugno 2015

Il reddito di cittadinanza e la Costituzione

Ha sollevato un certo stupore, negli ambienti anti-sistema, scoprire una netta convergenza tra Matteo Renzi e personalità insospettabili nella contrarietà al reddito di cittadinanza, così come proposto dal M5S. Alcuni fini giuristi si sono spinti a dire che il reddito di cittadinanza sarebbe addirittura contrario allo spirito, se non alla lettera, della Carta Costituzionale.
Avevamo già individuato alcuni strani casi di coincidenza di vedute tra esponenti dell'antisistema e del mainstream: clamorosa quella tra Schauble e i noeuro.
Non è mai facile comprendere le ragioni di queste sorprendenti convergenze. Con riferimento al tema specifico dobbiamo dire che il reddito di cittadinanza, in sé, non ci entusiasma: meglio sarebbe un programma di lavoro garantito coadiuvato da una riforma dei servizi pubblici all'insegna della gratuità (come spiegato qui). Stiamo parlando, oltretutto, di uno strumento "da maneggiare con cura", e che potrebbe anche sortire effetti controproducenti:


Tuttavia non ci verrebbe mai in mente di condurre crociate contro il reddito di cittadinanza; tantomeno potremmo pensare di mentire spudoratamente per attaccare quell'idea, come si fa quando si dice che essa è contraria a Costituzione.
Sul punto, è bene leggere questo ottimo articolo,
il quale giustamente richiama la disposizione costituzionale rilevante in materia, il secondo comma dell'art. 38:

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. 

Verrebbe quasi da dire che introdurre il reddito di cittadinanza risponda ad un obbligo costituzionale, altro che divieto!
Nella sua raffinatezza, la Costituzione italiana menziona un concetto keynesiano come la disoccupazione "involontaria". Si prende quindi atto che, in certi casi, il sistema economico non produce abbastanza impieghi per tutti. Se è vero che è compito della Repubblica garantire a tutti l'effettivo esercizio di un diritto al lavoro (art. 4 Cost.), è anche vero che, nel frattempo, non si può che fornire una qualche assistenza a chi un impiego non lo trova, e non lo può trovare.
Questo è quanto. Ora però vorrei inserire alcune considerazioni un po' più originali.
Quando si accenna alla non volontarietà, bisogna intendersi su quali siano i limiti della stessa. Se mi viene offerto un impiego non retribuito, ad esempio, e io lo rifiuto, mi ritrovo disoccupato in conseguenza di una mia scelta. Ovviamente questo grado di formalismo è inaccettabile. Ma allora qual è il limite entro il quale il rifiuto di un impiego non porta a considerare la disoccupazione come volontaria? 
Per capirlo, è consigliabile fare riferimento al medesimo testo costituzionale. Possiamo individuare due parametri: quello della dignità della persona e quello della sufficiente retribuzione
Del primo si ha un riconoscimento espresso all'art. 3 (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale...), e soprattutto all'art. 41, laddove si afferma che "l'iniziativa economica privata (...) non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".
Del secondo si ha un riconoscimento espresso al primo comma dell'art. 36, che si ricollega al tema della dignità:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Per le donne le condizioni diventano ancora più stringenti, come testimonia l'art. 37:

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Se ne può trarre la seguente indicazione: ogni cittadino ha sì il diritto di lavorare, ma quando si parla di "lavoro" in Costituzione si intende un impiego che, da un lato, non urta la dignità della persona, e all'altro garantisce una retribuzione adeguata. Un lavoro dignitoso, in una parola. Ne consegue che non può essere considerata involontaria la disoccupazione di chi rifiuti un impiego non dignitoso, ovvero un impiego che non gli garantisca una retribuzione adeguata.
Queste considerazioni, peraltro, evidenziano un limite della proposta dei 5 stelle: il cittadino disoccupato perde il reddito di cittadinanza se rifiuta tre offerte di lavoro, qualunque esse siano. La necessità di evitare che la persona sia costretta ad accettare qualsiasi lavoro, messa in evidenza da Grillo, non viene assicurata in misura definitiva. 
Ancora una volta, sarebbe opportuno non lasciare al mercato la scelta dell'impiego cui adibire i disoccupati, bensì organizzare un programma di lavoro garantito che sappia valorizzare le competenze e le vocazioni di ciascuno, garantendo un trattamento retributivo adeguato. 


mercoledì 27 maggio 2015

M5S, ora basta! Ci vogliono le Candidature di Unità Popolare

"Candidatura di Unità Popolare" (C.U.P.) è lo specifico nome che designa l'operazione politica a cui Podemos ha aderito in occasione delle recenti elezioni municipali spagnole, e che ha permesso di strappare i comuni di Madrid e Barcellona dal controllo dei partiti "sistemici" di quel paese.
Se si confrontano i risultati delle elezioni nelle regioni spagnole, dove Podemos si è presentato da solo, con quelle municipali, il dato è inequivocabile: il bacino elettorale delle C.UP. è il doppio rispetto a quello di Podemos. Se non fossero state messe in campo oggi non parleremmo di "rivoluzione democratica" in Spagna.
La C.U.P. è, innanzitutto, un cartello elettorale unitario, cui possono aderire movimenti e partiti, anche se non dotati di una dimensione elettorale. Questi possono essere numerosi, e anche molto diversi tra loro: Barcelòna en comù è frutto dell'impegno di undici diverse realtà sociali e politiche, grandi, piccole e piccolissime. Il collante è costituito dalla persona del candidato alla carica per cui si corre (Presidente; Sindaco), che generalmente viene individuata in soggetto di indiscutibili prestigio e rispettablità, e dal programma, nel quale devono confluire le sensibilità delle varie anime del progetto. Lo stesso programma non viene elaborato a tavolino, ma è frutto di un processo di partecipazione democratica, che se non è quel mastodontico lavoro che ho designato con la locuzione "programma di governo", ne condivide comunque la logica.
Ma la C.U.P. non è solo un cartello per vincere le elezioni: è anche, mi si passi la retorica, qualcosa che va oltre la sommatoria delle sue componenti. E' un "cantiere" in cui le varie forze alternative al dominio del ceto politico e delle aristocrazie finanziarie imparano a conoscersi, a lavorare insieme, a fidarsi gli uni degli altri, a riconoscere ciò che di comune c'è in loro. Se i cartelli che abbiamo visto in Italia presentati dalla "sinistra radicale" dal 2008 al 2013 erano esempi di "fusioni fredde", mere operazioni di spartizione tra partiti, la C.U.P. è una "fusione calda".
Podemos, com'è noto, è guidato da un manipolo di studiosi di storia e scienze politiche. L'equivalente di Podemos in italia, il Movimento 5 Stelle, è guidato da dilettanti e da guru malriusciti. I primi sono riusciti a capire l'importanza e il valore delle C.U.P. I secondi ovviamente no; hanno applicato nei confronti dei movimenti sociali e delle forze a loro affini, presenti e attive sui territori, la stessa regola che applicano nei confronti dei partiti sistemici: nessun contatto, nessuna alleanza. 
La pretesa di "fare da soli" del M5S è stata fin qui ridicola e irritante, ma dal voto del 31 maggio 2015 sarà anche etichettabile come sciagurata  e irresponsabile. 
In queste elezioni, e in particolare in Liguria, si evidenzieranno tre cose:
 1) il Movimento, per quanto in ottima salute, non è in grado, da solo, di sconfiggere i partiti sistemici;
2) esiste un grande spazio politico ed elettorale tra coloro che non si riconoscono né nel M5S, né nel ceto politico;
3) questo spazio rischia di essere occupato dai fuoriusciti dal PD e da quel che resta della "sinistra radicale", i quali già scimiottano indegnamente Podemos.

Occorre avere chiaro in mente che l'operazione che stanno compiendo questi ultimi, con in testa Civati, è di gran lunga la più pericolosa per le sorti del "fronte" alternativo a Renzi e al ceto politico. Si tratta di un'operazione che mira a riportare "al sicuro" i consensi che, per disgusto, sono passati dall'area del centro-sinistra all'astensione o al M5S. La prospettiva del nascendo soggetto politico, tuttavia, non può che essere quella dell'alleanza con il PD, che si vorrebbe condizionare da sinistra. Tutti i voti a questo soggetto, pertanto, sono voti riconquistati al ceto politico in generale, e al PD in particolare. 
Dato che l'operazione potrebbe avere un certo appeal tra gli elettori, come dimostrerà l'esperienza di Luca Pastorino, è ancora più urgente cercare di reagire, organizzando delle C.U.P. in Italia, a cui il M5S dovrà dare il contributo principale, ma senza per questo rivendicarne la leadership.
L'alternativa è continuare a conquistare buoni risultati nelle elezioni, senza peraltro vincerle, e lasciando aperta una voragine a disposizione delle operazioni trasformistiche del ceto politico. 

Il Movimento faccia uno sforzo di intelligenza, e segua l'esempio di Podemos e il consiglio di Fabrizio Tringali. Cominci a collaborare con i movimenti sociali per la formazioni delle C.U.P. Lo avesse fatto in occasioni di queste elezioni, avrebbe conquistato (almeno) la Liguria, e non sentiremmo parlare di Pastorino e Civati. 
Le prossime occasioni sono importantissime: l'anno prossimo si vota a Torino, Milano, Napoli e Bologna. Non c'è tempo da perdere.

martedì 19 maggio 2015

Confessioni di un giornalista

Ma come si fa a essere contro l'Expo?... Il pensiero critico serve quando è competente, serio profondo. Un conto è Picketty (sic); un altro conto sono i no-Tav, o i no-Expo” (Aldo Cazzullo, Sette-Corriere della sera, 15.5)
Da che si capisce che invece il pensiero acritico può anche essere incompetente, frivolo e superficiale. Come quello di Aldo Cazzullo.

domenica 17 maggio 2015

Gli ultimi giorni per Bruxelles

Un buon articolo del Sole24Ore ci permette di fare il punto sulla situazione greca, cogliendo qualche spunto e anche qualche conforto alle nostre tesi.
Il pezzo è così riassumibile. Apparentemente è interesse di entrambe le parti (governo greco ed "eurocrati") addivenire ad un compromesso; è infatti interesse della Grecia rimanere nell'euro e ricevere i miliardi che l'Eurogruppo ancora trattiene: è interesse degli eurocrati mantenere la Grecia nell'euro, e vedersi onorati i propri crediti. Vi sono però delle resistenze politiche su tre diversi versanti, che hanno una comune origine. 

L'origine è l'operato del governo Tsipras, che ha cambiato le regole del gioco europeo. E il mainstream lo riconosce: "una nota interna dello staff del FMI osserva che Tsipras ha invertito il corso delle riforme del sistema pensionistico, del mercato del lavoro (dove progressi erano stati fatti) e della pubblica amministrazione" Laddove per "mercato del lavoro" bisogna intendere taglio degli stipendi, per "pensioni" taglio dell'assegno mensile, e per "pubblica amministrazione" taglio del personale mediante licenziamenti di massa. "Inoltre mancano riforme strutturali di politica fiscale" e qui bisogna leggere tagli alla spesa pubblica, ovvero alla sanità, alla scuola, al benessere dei cittadini. In buona sostanza "il documento del governo greco non è in continuità con il memorandum d'intesa sottoscritto dal governo Papademos nel 2012". Si intuisce lo sconforto degli eurocrati: il popolo greco subisce anni di austerity distruttiva da parte dei propri governi, conseguentemente decide di mandarli a casa votando una forza politica che promette di porre fine all'austerity, e quella forza politica mantiene la promessa. Si tratta in effetti di uno schema inedito in Europa. Il nuovo governo è anche caratterizzato da poca creanza: "ai rappresentanti del Bruxelles Group (l'ex Troika) non è più garantito l'accesso agli uffici ministeriali ad Atene". Si erano abituati troppo bene. "Uno dei capi missione racconta che da una settimana non riesce a mettersi in contatto telefonico con gli interlocutori greci". Che mascalzoni!

Queste considerazioni, e questi fatti, dovrebbero finalmente fare piazza pulita del luogo comune propagandistico, ad uso e consumo dei politici tedeschi che vogliono apparire vincitori del negoziato, che dipinge il governo di Tsipras come un governo pronto a cedere alla UE, un governo di calabraghe se non proprio di traditori. Liberi dai luoghi comuni, si può finalmente cominciare a capire la portata della rivoluzione che ha interessato la Grecia, e che rischia di estendersi all'intera Europa. Per spiegare meglio il punto, occorre tornare ai tre versanti di crisi prima accennati.

Il primo ostacolo alla conclusione di un compromesso valido per entrambe le parti, pur in presenza di un netto mutamento delle riforme greche in senso progressista e anti-austerity, è la pervicacia del governo greco nel non volere recedere dalle proprie posizioni. D'altro canto se ciò accadesse sarebbe la fine di quel governo e di SYRIZA. 
Il secondo ostacolo è il fatto che il cambio di rotta del governo greco mette in gravi difficoltà il governo tedesco. "Un accordo troppo generoso con Atene mettere in imbarazzo soprattutto Angela Merkel che finirebbe per garantire a Tsipras quello che aveva negato ad Antonis Samaras, ex-premier greco e leader di un partito che fa parte dello stesso gruppo parlamentare europeo di quella della cancelliera". Notiamo en passant che l'articolista non è nemmeno sfiorato dal dubbio che Samaras fosse ben contento di adottare le riforme "imposte" dalla Merkel, dato che quelle riforme facevano parte del programma del suo partito nonché di quello del Partito Popolare Europeo. Comunque "Merkel dovrebbe presentarsi al Bundestag e spiegare per quale ragione dopo sette anni di intransigenza ora si è piegata ad un governo ostile alla linea europea propria e degli altri governi". Rileggiamo la definizione del Sole24ore del governo Tsipras: "un governo ostile alla linea europea propria e degli altri governi". Ehi, ma non erano dei traditori euristi?
L'ultimo ostacolo è rappresentato dalla BCE, che paventa la possibilità di un "haircut" del debito greco e che negli ultimi giorni, per bocca del membro del Board Weidemann, presidente della Bundesbank, "ha cominciato a lanciare messaggi di aperta ostilità nei a un eccesso di tolleranza nei confronti di Atene".

Queste considerazioni, e questi fatti, dovrebbero fare piazza pulita di un altro luogo comune, quello secondo il quale il governo Tsipras avrebbe dovuto minacciare l'uscita dall'euro in caso di mancata accettazione delle proprie proposte. Ne abbiamo già parlato. Se Merkel sarebbe in difficoltà nel presentare al parlamento l'attuale accordo con i greci, figuriamoci come sarebbe la situazione se tale accordo fosse stato presentato in termini ricattatori. Già oggi il vice-presidente della CSU, come nota l'articolo, parla a favore dell'uscita della Grecia dall'euro. Minacciarla avrebbe semplicemente accellerato il voto contrario di Berlino alle proposte greche

Quali conclusioni trae l'autore del pezzo da questi elementi? Che l'accordo è sì conveniente per entrambe le parti, ma che è difficilmente digeribile per il parlamento tedesco. L'alternativa all'accordo, si fa notare in conclusione, sarebbe l'uscita della Grecia dall'eurozona, la qual cosa peraltro danneggerebbe anche Merkel ("la Cancelliera (...) sa che se Atene uscisse dall'euro, sarebbe un giudizio tombale sull'intera sua strategia di gestione della crisi").

Al di là della credibilità personale della Merkel, ai tedeschi non conviene forzare la mano: la dimostrata fedeltà all'euro e al progetto europeo testimoniata dal governo greco renderebbe impossibile dipingerlo come responsabile dell'uscita, la quale si scaricherebbe sugli eurocrati. Ma c'è di più: l'uscita della Grecia genererebbe un effetto domino, che porterebbe alla disgregazione della moneta unica. Ecco perché nemmeno alla BCE conviene forzare la mano: dopo l'uscita Atene continuerà a esistere, l'istituto di Francoforte invece no. 

Ecco perché, comunque vada, gli esiti della rivoluzione (democratica) greca si irradieranno su tutta europa: provocheranno o la dissoluzione dell'euro, o il mutamento delle sue regole, che si dimostreranno nient'affatto eterne e inesorabili. Non è sicuro che entrambe le eventualità convengano al popolo greco; di sicuro nessuno delle due rientra tra i piani degli eurocrati. Ed ecco perché non stiamo assistendo alle ultime giornate per Atene, ma agli ultimi giorni per Bruxelles.

mercoledì 6 maggio 2015

La Corte Costituzionale salva i pensionati e bastona il ceto politico


Meritano una lettura approfondita le motivazioni della sentenza (n.70 del 2015) con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illeggittimità del blocco della rivalutazione degli assegni pensionistici decisa dal Governo Monti. Non può sfuggire, innanzitutto, che il relatore della causa (e conseguentemente il redattore della sentenza) sia Adriana Sciarra, eletta con i voti dei 5 stelle. E forse non è un caso, visto il tenore delle motivazioni.
Come si ricorderà, il blocco delle rivalutazioni fu uno dei tratti salienti dell'intervento di Monti e Fornero sulle pensioni, all'epoca dei fatti (dicembre 2011) lodato da molti, tra cui Claudio Borghi.
Il mancato adeguamento delle retribuzioni equivaleva a una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco fosse formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero. 
La questione di legittimità costituzionale del Decreto Legge 201/2011, che al suo art. 24, comma 25, conteneva il blocco, è stata sollevata dal Tribunale di Palermo, adito da un pensionato che chiedeva una pronuncia di condanna all'INPS a che questa pagasse quanto non corrispostogli a causa del blocco.
La Corte, dopo un'attenta disamina dei caratteri tecnico-strutturali dell'intervento, che ne evidenzia la portata e la profondità, spiega perché esso contrasti con i dettami del testo costituzionale: 
 
La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività.

Proporzionalità e ragionevolezza rispetto a che cosa? Al valore dell'eguaglianza sostanziale, che si estrinseca innanzitutto nel diritto ai lavoratori di ricevere una retribuzione sufficiente a garantire loro un'esistenza libera e dignitosa. Il meccanismo di rivalutazione a cui Monti e Forneo imposero il blocco serviva proprio a tutelare tali valori:

 Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (cioè alle pensioni).
Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.
La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. (...) Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona.

Il criterio della ragionevolezza vincola il legislatore, in questo senso: si possono modificare i meccanismi che preservano il valore delle retribuzioni, presenti o differite, dei lavoratori ovvero di chi ha lavorato; ma solo non intaccando il nucleo essenziale dei diritti alla cui protezione sono deputati tali meccanismi. Il legislatore, tuttavia, ha anche un altro vincolo: non solo non deve arrivare ad un sostanziale annullamento della tutela del pensionato, ma quando la riduce deve farlo sulla base di un congruo bilanciamento tra principi; deve, in altre parole, ben specificare perché ai pensionati si impone un sacrificio, e deve trattarsi di un motivo abbastanza "pesante" da giustificare tale sacrificio. Tuttavia:
 
La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica»

Pertanto il legislatore non solo non deve intaccare il nucleo essenziale dei diritti dei pensionati: è caricato anche da un onere di motivazione del suo intervento. Conclude la Corte:

 
L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. 

La pronuncia è notevole: fino ad oggi la tecnica della censura per difetto di motivazione è stata utilizzata soltanto per pronunciare l'illegittimità "formale" dei Decreti Legge, qualora non fosse ben illustrata dal legislatore la necessità e l'urgenza che costituiscono caratteri indefettibili per la loro adozione (art. 77 Cost). Trattandosi anche in questo caso di un D.L., la Corte avrebbe ben potuto limitarsi a dichiararne l'illegittimità per difetto di illustrazione circa la necessità e l'urgenza che giustificassero l'adozione del provvedimento. Invece si fa un passo ulteriore, introducendo un'llegittimità di carattere "sostanziale": il parametro per giudicare il difetto di motivazione non è l'art. 77, ma direttamente le disposizioni della Carta che sanciscono i principi cardine dell'ordinamento; in questo caso, il diritto dei lavoratori ad una giusta retribuzione (art. 36) e il diritto degli inabili al lavoro al mantenimento (art. 38). 
Non appartiene alla nostra tradizione giuridica l'obbligo di motivazione degli interventi di carattere normativo (come le leggi), ed è solo da una generazione che è stato introdotto il dovere di motivare gli atti di natura provvedimentale. La pronuncia della Corte introduce una profonda novità, getta nello sconcerto ceto politico ed eurocrati, aiuta l'economia, e sancisce un precedente: d'ora in poi non dovrebbe essere così facile per il legislatore sacrificare impunemente i diritti e i principi consacrati nella prima parte della Costituzione.



lunedì 27 aprile 2015

Perché Tsipras fa bene a non parlare di uscita dall'euro

(post scritto prima che giungesse questa notizia. Alle informazioni sulla Grecia occorre fare la tara, doppia o tripla se provengono da giornali italiani. Se i fatti fossero confermati essi potrebbe assumere il significato di una resa di Tsipras? E' presto per giudicare. Certo, se così fosse sarebbe una sciagura per tutti, greci e non; e per questo appare incomprensibile il ghigno di soddisfazione con cui in troppi segnalano, sul web, questa notizia)

Un recente sondaggio ha ridimensionato la fiducia che i greci nutrono per il governo di Alexis Tsipras, così come il consenso (virtuale) verso SYRIZA. Alcuni hanno riportato questo dato presentandolo come la prova del fatto che la strategia negoziale di Atene non è popolare presso i greci, visto che manca di mordente e di intransigenza; l'handicap principale, si dice, sarebbe l'indisponibilità del governo greco ad uscire dall'euro, o anche solo a minacciarla
Chi dice così non tiene conto di altri dati che emergono dal sondaggio. E' aumentata tra i cittadini greci la preoccupazione che il grexit si avvicini; ed è stabile il rapporto tra favorevoli e contrari alla permanenza nella moneta unica: per ogni due greci favorevoli all'uscita, ce ne sono sette favorevoli alla permanenza. Se si mette in correlazione questo dato con quello relativo alla fiducia in Tsipras, emerge un quadro piuttosto nitido: molti greci, pur favorevoli ad una trattativa "dura" con i partner europei, sono molto preoccupati che, all'esito della stessa, il governo di Atene sia forzato ad abbandonare la moneta unica. Se ci pensate, è la stessa situazione che si crea nelle vertenze sindacali più combattute: i lavoratori in sciopero vorebbero ovviamente condurre la lotta fino alla vittoria, ma alcuni di loro sono terrorizzati dall'eventualità che il padrone chiuda la fabbrica, oppure sono preoccupati per la durata dello sciopero, che nega loro lo stipendio. 

Si può dunque affermare che se il governo greco dichiarasse l'uscita unilaterale dell'eurozona tradirebbe in maniera palese il proprio mandato elettorale, e compierebbe un atto profondamente impopolare. Lo stesso potrebbe dirsi per le idee di uscita concordata dall'euro, che tanto piacciono a Fassina e Lapavitsas (e che sono assurde, come dimostreremo in un prossimo post).

Molti euroscettici, tuttavia, criticano Tsipras non tanto perché non annuncia il grexit, quanto perché non lo minaccia al fine di prevalere nella trattativa. Gli eurocrati, si dice, temono come la morte la fine dell'euro, che sarebbe conseguenza pressoché inevitabile dell'uscita della Grecia; di conseguenza se Tsipras ventilasse tale ipotesi, gli eurocrati cederebbero: pertanto il governo greco, giurando fedeltà all'euro, si è in realtà privato dell'unica arma di pressione che aveva a disposizione.

A prendere sul serio questa critica, si sarebbe portati a pensare che il governo di Atene sia composto da emeriti imbecilli animati da pulsioni suicide: si presentano ad un negoziato privi dell'unico strumento che potrebbe far loro vincere il negoziato. Una condotta da completi deficienti.
Spesso però è opportuno non sottovalutare gli attori politici, e cercare una spiegazione logica alle loro mosse; e Tsipras potrebbe averne almeno una estremamente solida e coerente. 

Come dovrebbe essere noto, la maggior parte dei cittadini tedeschi vuole la Grecia fuori dall'euro. Il discorso può essere generalizzato per i cittadini olandesi, austriaci, finlandesi. Del resto, anche molti italiani (di fede anti-euro) vogliono il grexit, timorosi di dover sborsare altri soldi in "aiuti" ad Atene. Le iniziative del governo Tsipras vengono spesso recepite con fastidio da queste opinioni pubbliche, a cui vengono dipinte come tentativi dei soliti greci di evitare i sacrifici e farla franca.

In questo quadro, il politico tedesco (o comunque "nordico") che favorisse l'uscita dall'euro della Grecia sarebbe premiato dall'elettorato; il politico che favorisse la permanenza non sarebbe premiato. Se poi i negoziatori greci ponessero alle controparti "nordiche" un aut-aut del tipo "o accettate le nostre condizioni, oppure usciamo dall'euro", assisteremmo, con matematica certezza, al rifiuto dei  "nordici" della proposta greca: qualunque politico tedesco che si piegasse ad un simile "ricatto", infatti, verrebbe semplicemente obliterato dai propri elettori, che vedono sia la permanenza della Grecia nell'eurozona, sia la proposta di Tsipras di farla finita con l'austerità, come fumo negli occhi. Un cittadino tedesco difficilmente accetterebbe di vedere umiliato il proprio paese (accettare un aut-aut è sempre umiliante); ma non potrebbe mai consentire che ciò avvenisse al fine di tenere la Grecia nell'euro. 
Ed ecco spiegata la pervicacia di Tsipras nel proporre un compromesso onorevole con i creditori: il Premier greco sa bene che occorre trovare un tipo di accordo che permetta ai negoziatori tedeschi di salvare la faccia in patria. Se invece avesse minacciato l'uscita dall'euro, avrebbe sostanzialmente costretto i "nordici" a opporgli un rotondo "NO"; e siccome non avrebbe potuto dar seguito alla propria minaccia, stante la granitica opposizione dei greci all'uscita dall'euro, avrebbe perso qualsiasi credibilità in sede internazionale, e di conseguenza qualsiasi possibilità di negoziare un qualsiasi accordo che permettesse alla Grecia di uscire dall'austerità.
Una condotta, questa sì, da completi deficienti. 

Un'altra cosa che Tsipras conosce perfettamente è che i politici "nordici" non sono contrari, in linea di principio, all'uscita dell'euro della Grecia; basta che il governo greco se ne assuma la responsabilità. I segnali sono numerosi: dal tentativo di minimizzare le conseguenze del Grexit, a quello di spostare la responsabilità dell'evento sul governo greco. Gli eurocrati temono, naturalmente, l'effetto domino che deriverebbe dall'uscita dall'euro della Grecia, ma sanno anche che se tale evento apparisse come conseguenza dalle scelte unilaterali di un governo di comunisti, gli investitori internazionali lo registrebbero come un evento eccezionale, un cigno nero: se invece derivasse da un "default accidentale" l'evento verrebbe registrato come la prova che il sistema dell'euro è intrinsecamente instabile, e ciò che è accaduto alla Grecia può accadere anche a Cipro, al Portogallo, alla Spagna...*

Ecco delinearsi il senso della strategia di Tsipras e Varoufakis: danzare sull'orlo del burrone, mettendo gli eurocrati di fronte alla responsabilità di rendere probabile il "defaul accidentale". Se i greci non cedono, si aprono due possibilità: o gli eurocrati rimangono fermi sulle loro posizioni, ma allora rendono probabile il crollo dell'euro; oppure concedono alla Grecia un accordo onorevole, ma allora questa è la dimostrazione che le leggi dell'euro non sono immutabili.

Non è detto che questa strategia porti Atene al successo. Di sicuro, però, essa rappresenta la prova che Tsipras si avvale di consiglieri più svegli della maggior parte dei blogger "antisistema" nostrani.





*chi crede che questa interpretazione dia troppo peso alla psicologia degli operatori economici non ha compreso la lezione di Keynes, che assegna un ruolo centrale a tale psicologia.

martedì 21 aprile 2015

Allegria di naufragi

L'ottimo Mazzetta, su Twitter, ha trovato un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia. Eccoli:



Non bisogna mai dimenticare che l'Apartheid, il segregazionismo USA, i vari fascismi conobbero un sostegno di massa. Così è anche per la mattanza dei migranti africani.
In un mondo più giusto, queste persone andrebbero messe su un apposito barcone e lasciate alla deriva. Nel mondo in cui realmente viviamo, queste persone votano. Ed è proprio questa la ragione principale dell'impossibilità di risolvere il problema dell'immigrazione.

Cerchiamo di ragionare.

Per risolvere il problema, ci sono due vie, alternative tra loro. La prima è quella del blocco navale, naturalmente sponsorizzata dai Nazisti dell'Illinois, ma anche da Renzi, il quale, ricordiamolo, è responsabile del passaggio da Mare Nostrum a Triton, ovvero del taglio dei due terzi delle risorse destinare al soccorso in mare dei migranti. Questa proposta, ovviamente, non può aver alcun riflesso pratico finché non si è disposti a sparare sulle imbarcazioni dei migranti; per la banale ragione che quelli non si fermano. Occorrerebbe pertanto un pattugliamento costante (e costoso) delle coste libiche e tunisine, composto da unità pronte ad annientare le imbarcazioni che tentano di forzare il blocco. Al decimo affondamento è presumibile che i migranti si scoraggino, e che smettano di tentare la fortuna sui barconi.
Naturalmente questa via è del tutto impercorribile. Nessun politico, militare o funzionario si assumerebbe mai la responsabilità di simili crimini contro l'umanità. Tali crimini sono però l'elemento che darebbe effettività al blocco navale. In ultima analisi, non ci sarà alcun blocco navale: chi ve ne parla spacciandolo per soluzione è un cialtrone e/o un ipocrita.

L'altra soluzione è quella di approntare una linea di traghetti tra le coste libiche e un qualche porto siciliano. Questa proposta, assai meno paradossale di quel che appare, è stata avanzata da alcuni studiosi seri del fenomeno, e implicherebbe numerosi vantaggi: impedirebbe le stragi, stroncherebbe le organizzazioni criminali (i migranti pagherebbero alla linea di traghetti il biglietto che ora pagano agli scafisti), farebbe risparmiare fior di quattrini alla marina militare, permetterebbe un controllo preventivo, anche sotto il profilo sanitario, delle persone che intendono migrare in Italia. In una battuta: se la Tirrenia avesse cominciato a fare questo tipo di operazioni dieci anni fa, oggi non avrebbe i conti in rosso, e si sarebbero salvate molte migliaia di vite umane.
Questa soluzione, tuttavia, implica altre iniziative, di notevolissima portata. L'afflusso di immigrati andrebbe regolato, gestito, organizzato. Al netto dei richiedenti asilo, andrebbe preparato un programma di avviamento al lavoro, vincolato al buon comportamento del soggetto e dotato di un termine; ad esempio, si potrebbe prevedere di concedere all'immigrato una permanenza, e un impiego, della durata di 5 o 10 anni. Si tratterebbe pertanto di un programma di lavoro garantito*. Il programma, tuttavia, non potrebbe includere solo gli immigrati, ma anche i cittadini italiani, pena un'intollerabile disparità di trattamento. 
Anche così facendo, occorrerebbe comunque cercare di limitare i numeri degli arrivi. Per farlo, sarebbe necessario prendere sul serio il leit-motiv di tutti gli xenofobi, aiutare gli stranieri a casa loro. Ma cosa può significare questa espressione? Se vogliamo darvi un senso, dobbiamo interpretarla nel senso che gli stati europei dovrebbero investire alcune decine di miliardi di euro l'anno nell'indutrializzazione (possibilmente compatibile con l'ecosistema) dei paesi dell'Africa sub-sahariana. Gli impieghi sarebbero innumerevoli: dall'introduzione di metodi moderni e meccanizzati per l'irrigazione dei suoi, all'introduzione di reti di servizi efficienti negli agglomerati urbani, all'installazione di centrali di produzione di energia rinnovabile (si pensi al solare); il tutto realizzabile da una forza lavoro retribuibile in misura trascurabile (per gli standard occidentali, non per quelli sub-sahariani: si pensi a stipendi da 100 euro al mese in Mali).

Come è evidente, le soluzioni sarebbero molteplici; il problema è che non sono praticabili. La Lega Nord, e tutti i partiti consimili, sarebbero favorevoli a che l'Europa investisse alcuni decimali del suo PIL** nei paesi da cui provengono gli immigrati? La risposta è prevedibile: un rotondo NO. "Aiutarli a casa loro" va bene come slogan per evitare di affrontare il problema, non come soluzione pratica.

La verità è che possiamo inventarci tutte le soluzioni più variopinte, ma che esse verranno tutte invariabilmente affondate dal feroce egoismo dei commentatori di cui sopra, che sono massa elettorale per soddisfare la quale si prodigano Salvini e Renzi, Berlusconi e Grillo (e Sarkozy-Merkel-Farage-Le Pen-Cameron-Rutte). Questo non è una questione che possiamo pensare di affrontare gratis, senza concedere qualcosa, senza fare alcun sacrificio (ampiamente ripagato nel lungo termine); senza mettere tra le premesse del problema la necessità di rispettare la dignità dei migranti, anche a costo di togliervi il principio della conservazione del quattrino con ogni mezzo.

Al prossimo affondamento.





*è il primo articolo in italiano che ho trovato sul lavoro garantito, non datemi del memmetaro.
** il quale, nel 2014, ha superato i 18400 miliardi di euro.

sabato 18 aprile 2015

Alberto Bagnai e i Nazisti dell'Illinois

Partiamo da questa notizia. La Lega Nord non solo vuole radere al suolo i campi Rom, ritenuti indistintamente feccia della società. Non solo vuole sospendere le operazioni di soccorso navale nel Canale di Sicilia, il che non significa altro che lasciar annegare i migranti. Non solo esprime, attraverso i suoi esponenti di punta, l'esigenza di rivalutare il Nazismo. Adesso tra i bersagli ci sono anche i partiti comunisti. Ricorda la poesia di Martin Niemoller: prima vennero...

La Lega di Salvini si presenta come diversa dalla Lega austeritaria, tecnocratica e confindustriale di Maroni e Tremonti; quella che è stata al governo fino al 2011, per intenderci. In realtà, gli elementi di intolleranza e razzismo erano già fortissimi allora, e si può dire che facciano parte del patrimonio genetico del partito. Con Salvini, tuttavia, quegli elementi definiscono in via quasi esclusiva la linea del partito: una linea di attacco, aggressiva e feroce, tesa a costruire un forte polo di destra neo-nazista in Italia, sul modello greco e ungherese, ancor più che francese. Il tutto con il favore di media irresponsabili, che con l'intento di fornire a Renzi una opposizione di comodo danno visibilità alla nazi-Lega, giocando con il fuoco. 

La Lega di Salvini è una minaccia per la democrazia. C'è da chiedersi cos'altro dovrebbero fare i suoi esponenti perché tanti se ne accorgano: passare all'azione? Organizzare dei pogrom?

Ora, Alberto Bagnai è molto, molto vicino alla Lega Nord. Fino a ieri gravitava soprattutto nei pressi di Gianni Alemanno, ma poi qualcosa è andato storto. Si può dire che Bagnai abbia avuto una parte non trascurabile nel successo della nazi-Lega di Salvini: in effetti un partito di estrema destra favorevole all'euro, com'era la Lega  prima del 2013-2014, è una contraddizione in termini. Bagnai ha fornito a Salvini le parole per dirlo; e di conseguenza la Lega ha potuto attingere appieno al suo bacino elettorale naturale. Un sodale di Bagnai, Claudio Borghi, è divenuto persino un quadro organico del partito. 
Come molti lettori si ricorderanno, la carriera di "divulgatore" anti-euro di Bagnai non inizia tanto con gli articoli sul Manifesto o su La Voce, bensì con il convegno di Chianciano dell'ottobre 2011; Convegno organizzato da quei Marxisti dell'Illinois di cui tanto il nostro si è fatto beffe in questi anni.

A questo punto la domanda sorge spontanea: ma che senso ha prendere le distanze dai Marxisti dell'illinois, per poi cadere nelle braccia dei Nazisti dell'Illinois, anzi della Padania?

Ma non eravamo tutti contro l'euro in nome dell'antifascismo, perché l'euro è nazista? (ah no, forse adesso l'euro è comunista...). Come si fa a combattere l'euro-nazismo collaborando con una forza neo-nazista? Forse Bagnai, per una questione morale ancor prima che politica, farebbe bene a pronunciarsi in maniera chiara e netta contro le mostruosità della Lega di Salvini. Parola di commentatore n.1 del suo blog (firmato):







domenica 12 aprile 2015

Ma #Fuoridalleuro sta funzionando?

Un luogo comune abbastanza diffuso nell'ambito dell'Antisistema è quello secondo il quale il M5S deve la sua crisi ad una posizione ambigua sull'euro; se il Movimento si fosse pronunciato chiaramente per l'uscita, si dice, non solo avrebbe impedito il successo mediatico e politico di Salvini, ma avrebbe sicuramente ottenuto un miglior risultato alle elezioni europee.
I dirigenti del M5S sembrano aver ascoltato questi suggerimenti, lanciando la campagna Fuori dall'euro, anzi #Fuoridalleuro. Saranno contenti quelli che insinuavano che il Movimento fosse composto da infiltrati dell'eurocrazia per sviare le masse.
La campagna è stata lanciata nell'ottobre del 2014. Sono passati più di sei mesi, ovvero un lasso di tempo sufficiente per valutarne le conseguenze in termini di consenso. Vediamo i risultati.


Il lettore è pregato di tracciare una linea verticale che parta da 'Oct 2014'.
Con tutta evidenza, la campagna per il referendum sull'euro non ha avuto il minimo impatto sulle preferenze di voto per il M5S; non è riuscita né a scalfire il consenso del PD, né, in particolare, ad arrestare la crescita della Lega.
Se uno avesse la pazienda di consultare tutti i sondaggi degli ultimi sei mesi, noterebbe due cose: un discreto picco dei consensi al M5S in corrispondenza dell'inchiesta Mafia Capitale; e una leggera risalita nelle ultime settimane. Questa ultima risalita, a mio modesto avviso, è riconducibile alla circostanza, alla portata di qualsiasi osservatore, che da un po' di tempo il M5S non attira più l'attenzione dei media per i suoi contrasti interni, ma per le cose che dice; prova ne è il fatto che nei talk shows sono sempre più presenti esponenti del Movimento, e non più solo i fuoriusciti.
Alla luce di questi dati, è forse lecito formulare un'ipotesi: chi affermava che i guai del M5S erano dovuto all'ambiguità sulla questione euro esagerava, e grandemente, l'importanza che tale questione ha presso l'elettorato italiano, che è invece sensibile ad altre questioni; prima su tutte, il malaffare del ceto politico.

mercoledì 8 aprile 2015

Cosa abbiamo fatto per meritarci Diego Fusaro?

Ogni icona, anche piccola, merita il suo carico di satira. Diego Fusaro è indubbiamente una piccola icona, e questo è un pezzo di satira particolarmente penetrante.
L'autore ci offre una divertente decostruzione della figura mediatica di Fusaro. Prima che un intellettuale infatti, Fusaro è un giovane di successo, un'autentica vedette. Nell'odierna società dello spettacolo* ogni gusto e tendenza (la massoneria, gli amanti dello yoga, gli appassionati di flag football) ha diritto ad una propria nicchia spettacolistica all'interno della quale operano le piccole star che fanno da riferimento a quel piccolo mondo. Fusaro è una star dell'Antisistema.
Sugli aspetti macchiettistici del personaggio, e sulla sua auto-promozione in termini di marketing, non posso che rimandare al pezzo linkato in apertura. Vorrei però dire due parole sul pensiero di Fusaro, ammesso che in questo caso pensiero e marketing siano distinguibili. 
Se davvero il fine della giovane vedette è costruire un "nuovo senso comune" che faccia da base ad un "fronte trasversale anticapitalista", chi abbia una minima frequentazione degli scritti del Nostro e soprattutto di quelli Preve sa che quel "senso comune" altro non è che il vecchio ordine sociale borghese.
Fusaro si appropria di una parte in grado di toccare una o più corde dell'animo di ciascuno di noi: quella di chi denuncia i mali del nuovo e predica il ritorno ai valori dell'antico. La critica principale (se non l'unica) che il Nostro rivolge al capitalismo è di aver sconvolto il vecchio ordine sociale borghese, fatto di equilibrio, misura e certezze. In quest'ottica Marx viene rielaborato come filosofo integralmente idealista, hegeliano, conservatore e, in ultima analisi, borghese. Chi ha dei dubbi si legga i testi di Fusaro, o anche solo quelli di Preve, che sono scritti meglio e si trovano gratis su internet. Al capitalismo viene contestata la corrosione degli istituti della Famiglia, dello Stato, della Nazione, della Religione, della Scuola (intesa nel senso di educazione all'autorità). E' perciò perfettamente naturale che Fusaro contrasti aspramente l'espansione dei "nuovi diritti" (anzitutto civili), tuoni contro l'insegnamento in inglese nell'università, e assuma posizioni sull'immigrazione assimilabili a quelle dei partiti xenofobi. Quel che ci critica del capitalismo, in altre parole, è il suo (presunto) portato di modernità; non la sofferenza che infligge ai singoli e alle masse, né nessun'altra ragione.

Il senso comune a cui allude Fusaro è un senso comune reazionario; e qui sta forse la chiave intepretativa del personaggio. Poiché il senso comune reazionario è, in realtà, assai diffuso nella società, Fusaro potrebbe ergersi a interprete di questo sentimento (probabilmente) maggioritario; ma la sua esigenza di mantenere un successo di immagine e pubblico presso l'Antisistema lo costringe a utilizzare concetti e toni troppo radicali per la platea mainstream.

Ha qualcosa di vagamente "anticapitalista" questo discorso? Neanche per idea.
L'anticapitalismo, se significa qualcosa, è il tratto unificante delle esperienze di lotta per l'emancipazione e contro l'asservimento a cui conducono i rapporti sociali capitalistici. Non si lotta contro il capitalismo tanto per farlo, ma per affermare qualcosa che ha un valore concreto. Questi valori sono, tipicamente, la libertà e la dignità umana. La lotta per la libertà e la dignità accomuna tanto chi lotta per il salario quanto chi lotta per l'affermazione dei propri diritti civili. Il capitalismo non fa, e non ha mai fatto, nulla per la promozione dei diritti civili, che invece sono stati conquistati al prezzo di dure lotte, arginate dalle medesime forze che presiedono al mantenimento dei rapporti di produzione capitalistici. Del resto, solo un provinciale potrebbe individuare nella promozione dei diritti civili e nel superamento delle vecchie istitutuzioni "patriarcali" un tratto necessario dello sviluppo capitalistico: nell'ambito di un mondo completamente e integralmente dominato dalle logiche del mercato, i diritti civili sono protetti solamente in una sezione del globo, l'occidente. Gli stati del Golfo Persico, ad esempio, sono all'avanguardia dello sviluppo capitalistico contemporaneo, ma presso di loro nessuno dei vecchi valori patriarcali ha subito il minimo appannamento. Chi poi volesse alzare lo sguardo, noterebbe che in giro per il mondo (in Russia, in India, in Turchia, in Iran) si sviluppano regimi che coniugano perfettamente promozione del neoliberismo e soppressione delle libertà civili e "intime".  

Chi presenta gli elementi costitutivi di un programma politico reazionario, indicandone una natura anticapitalista, non fa altro che aggiungere confusione alla confusione, mistificazione alla mistificazione. Fusaro continuerà a farlo, perché l'Antisistema continuerà a eleggerlo a propria vedette e icona. E forse è proprio questo il motivo per cui ce lo meritiamo.



*naturalmente uso l'espressione società dello spettacolo in senso generico e volgare, e non nel preciso significato che vi ha attribuito Guy Debord.