DEMOLIAMO LUOGHI COMUNI
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mercoledì 10 giugno 2015

Il reddito di cittadinanza e la Costituzione

Ha sollevato un certo stupore, negli ambienti anti-sistema, scoprire una netta convergenza tra Matteo Renzi e personalità insospettabili nella contrarietà al reddito di cittadinanza, così come proposto dal M5S. Alcuni fini giuristi si sono spinti a dire che il reddito di cittadinanza sarebbe addirittura contrario allo spirito, se non alla lettera, della Carta Costituzionale.
Avevamo già individuato alcuni strani casi di coincidenza di vedute tra esponenti dell'antisistema e del mainstream: clamorosa quella tra Schauble e i noeuro.
Non è mai facile comprendere le ragioni di queste sorprendenti convergenze. Con riferimento al tema specifico dobbiamo dire che il reddito di cittadinanza, in sé, non ci entusiasma: meglio sarebbe un programma di lavoro garantito coadiuvato da una riforma dei servizi pubblici all'insegna della gratuità (come spiegato qui). Stiamo parlando, oltretutto, di uno strumento "da maneggiare con cura", e che potrebbe anche sortire effetti controproducenti:


Tuttavia non ci verrebbe mai in mente di condurre crociate contro il reddito di cittadinanza; tantomeno potremmo pensare di mentire spudoratamente per attaccare quell'idea, come si fa quando si dice che essa è contraria a Costituzione.
Sul punto, è bene leggere questo ottimo articolo,
il quale giustamente richiama la disposizione costituzionale rilevante in materia, il secondo comma dell'art. 38:

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. 

Verrebbe quasi da dire che introdurre il reddito di cittadinanza risponda ad un obbligo costituzionale, altro che divieto!
Nella sua raffinatezza, la Costituzione italiana menziona un concetto keynesiano come la disoccupazione "involontaria". Si prende quindi atto che, in certi casi, il sistema economico non produce abbastanza impieghi per tutti. Se è vero che è compito della Repubblica garantire a tutti l'effettivo esercizio di un diritto al lavoro (art. 4 Cost.), è anche vero che, nel frattempo, non si può che fornire una qualche assistenza a chi un impiego non lo trova, e non lo può trovare.
Questo è quanto. Ora però vorrei inserire alcune considerazioni un po' più originali.
Quando si accenna alla non volontarietà, bisogna intendersi su quali siano i limiti della stessa. Se mi viene offerto un impiego non retribuito, ad esempio, e io lo rifiuto, mi ritrovo disoccupato in conseguenza di una mia scelta. Ovviamente questo grado di formalismo è inaccettabile. Ma allora qual è il limite entro il quale il rifiuto di un impiego non porta a considerare la disoccupazione come volontaria? 
Per capirlo, è consigliabile fare riferimento al medesimo testo costituzionale. Possiamo individuare due parametri: quello della dignità della persona e quello della sufficiente retribuzione
Del primo si ha un riconoscimento espresso all'art. 3 (tutti i cittadini hanno pari dignità sociale...), e soprattutto all'art. 41, laddove si afferma che "l'iniziativa economica privata (...) non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana".
Del secondo si ha un riconoscimento espresso al primo comma dell'art. 36, che si ricollega al tema della dignità:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Per le donne le condizioni diventano ancora più stringenti, come testimonia l'art. 37:

La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.

Se ne può trarre la seguente indicazione: ogni cittadino ha sì il diritto di lavorare, ma quando si parla di "lavoro" in Costituzione si intende un impiego che, da un lato, non urta la dignità della persona, e all'altro garantisce una retribuzione adeguata. Un lavoro dignitoso, in una parola. Ne consegue che non può essere considerata involontaria la disoccupazione di chi rifiuti un impiego non dignitoso, ovvero un impiego che non gli garantisca una retribuzione adeguata.
Queste considerazioni, peraltro, evidenziano un limite della proposta dei 5 stelle: il cittadino disoccupato perde il reddito di cittadinanza se rifiuta tre offerte di lavoro, qualunque esse siano. La necessità di evitare che la persona sia costretta ad accettare qualsiasi lavoro, messa in evidenza da Grillo, non viene assicurata in misura definitiva. 
Ancora una volta, sarebbe opportuno non lasciare al mercato la scelta dell'impiego cui adibire i disoccupati, bensì organizzare un programma di lavoro garantito che sappia valorizzare le competenze e le vocazioni di ciascuno, garantendo un trattamento retributivo adeguato. 


mercoledì 6 maggio 2015

La Corte Costituzionale salva i pensionati e bastona il ceto politico


Meritano una lettura approfondita le motivazioni della sentenza (n.70 del 2015) con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illeggittimità del blocco della rivalutazione degli assegni pensionistici decisa dal Governo Monti. Non può sfuggire, innanzitutto, che il relatore della causa (e conseguentemente il redattore della sentenza) sia Adriana Sciarra, eletta con i voti dei 5 stelle. E forse non è un caso, visto il tenore delle motivazioni.
Come si ricorderà, il blocco delle rivalutazioni fu uno dei tratti salienti dell'intervento di Monti e Fornero sulle pensioni, all'epoca dei fatti (dicembre 2011) lodato da molti, tra cui Claudio Borghi.
Il mancato adeguamento delle retribuzioni equivaleva a una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco fosse formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero. 
La questione di legittimità costituzionale del Decreto Legge 201/2011, che al suo art. 24, comma 25, conteneva il blocco, è stata sollevata dal Tribunale di Palermo, adito da un pensionato che chiedeva una pronuncia di condanna all'INPS a che questa pagasse quanto non corrispostogli a causa del blocco.
La Corte, dopo un'attenta disamina dei caratteri tecnico-strutturali dell'intervento, che ne evidenzia la portata e la profondità, spiega perché esso contrasti con i dettami del testo costituzionale: 
 
La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività.

Proporzionalità e ragionevolezza rispetto a che cosa? Al valore dell'eguaglianza sostanziale, che si estrinseca innanzitutto nel diritto ai lavoratori di ricevere una retribuzione sufficiente a garantire loro un'esistenza libera e dignitosa. Il meccanismo di rivalutazione a cui Monti e Forneo imposero il blocco serviva proprio a tutelare tali valori:

 Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (cioè alle pensioni).
Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.
La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. (...) Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona.

Il criterio della ragionevolezza vincola il legislatore, in questo senso: si possono modificare i meccanismi che preservano il valore delle retribuzioni, presenti o differite, dei lavoratori ovvero di chi ha lavorato; ma solo non intaccando il nucleo essenziale dei diritti alla cui protezione sono deputati tali meccanismi. Il legislatore, tuttavia, ha anche un altro vincolo: non solo non deve arrivare ad un sostanziale annullamento della tutela del pensionato, ma quando la riduce deve farlo sulla base di un congruo bilanciamento tra principi; deve, in altre parole, ben specificare perché ai pensionati si impone un sacrificio, e deve trattarsi di un motivo abbastanza "pesante" da giustificare tale sacrificio. Tuttavia:
 
La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica»

Pertanto il legislatore non solo non deve intaccare il nucleo essenziale dei diritti dei pensionati: è caricato anche da un onere di motivazione del suo intervento. Conclude la Corte:

 
L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. 

La pronuncia è notevole: fino ad oggi la tecnica della censura per difetto di motivazione è stata utilizzata soltanto per pronunciare l'illegittimità "formale" dei Decreti Legge, qualora non fosse ben illustrata dal legislatore la necessità e l'urgenza che costituiscono caratteri indefettibili per la loro adozione (art. 77 Cost). Trattandosi anche in questo caso di un D.L., la Corte avrebbe ben potuto limitarsi a dichiararne l'illegittimità per difetto di illustrazione circa la necessità e l'urgenza che giustificassero l'adozione del provvedimento. Invece si fa un passo ulteriore, introducendo un'llegittimità di carattere "sostanziale": il parametro per giudicare il difetto di motivazione non è l'art. 77, ma direttamente le disposizioni della Carta che sanciscono i principi cardine dell'ordinamento; in questo caso, il diritto dei lavoratori ad una giusta retribuzione (art. 36) e il diritto degli inabili al lavoro al mantenimento (art. 38). 
Non appartiene alla nostra tradizione giuridica l'obbligo di motivazione degli interventi di carattere normativo (come le leggi), ed è solo da una generazione che è stato introdotto il dovere di motivare gli atti di natura provvedimentale. La pronuncia della Corte introduce una profonda novità, getta nello sconcerto ceto politico ed eurocrati, aiuta l'economia, e sancisce un precedente: d'ora in poi non dovrebbe essere così facile per il legislatore sacrificare impunemente i diritti e i principi consacrati nella prima parte della Costituzione.