In risposta
alla mia analisi critica sul ruolo della moderazione salariale
tedesca nella crisi dell'eurozona, Heiner Flessbeck e Costas
Lapavitsas hanno illustrato la loro versione di quel che grossomodo è
il modello, da manuale neoclassico, di unione monetaria. La loro tesi
principale è che non ci sarebbe stata alcuna crisi nelle bilance dei
pagamenti degli stati euro, e dunque nessuna crisi del debito nei
paesi in deficit, se tutti gli stati avessero mantenuto la crescita
nominale dei salari uguale alla crescita della produttività del
lavoro più il 2% (il target di inflazione). Il prof. Wren-Lewis
(2016) condivide il medesimo argomento.
Seguendo tale
impostazione, il delicato equilibrio dell'eurozona è stato
deliberatamente sovvertito da una forte moderazione salariale nella
mercantilista Germania, con crescenti surplus commerciali da parte
tedesca che si presentano come meri riflessi dei crescenti deficit
dell'Europa meridionale. È assai ironico che una simile logica sia
comune a quella utilizzata da osservatori come Sinn (2014), o
addirittura dallo stesso Schauble, con un'unica differenza: Sinn e
Schauble sostengono che la crisi delle partite correnti sono dovute
all'incapacità dei paesi in deficit di seguire il virtuoso esempio
tedesco di taglio del costo del lavoro. Sia chiaro: il punto, per me,
non schierarmi da una parte o dall'altra di tale dibattito, tra
quelli che accusano la Germania di essere cresciuta a scapito dei
vicini o tra quelli che invece la lodano per la sua
super-competitività. Entrambe le parti sbagliano nel ritenere che un
modellino da manuale universitario possa essere usato, con qualche
credibilità, per sostenere che gli squilibri dell'eurozona siano
stati provocati da incrementi o da diminuzioni (esogeni) del costo
del lavoro per unità di prodotto. Si tratta di un mito-anzi di un
feticcio, per dirla con Marx; un totem reificato che impedisce la
comprensione di quanto sta davvero accadendo. È decisamente venuta
l'ora di sfatare questo mito, per almeno cinque buone ragioni.
Dove sono le banche?
In primo luogo,
il modello proposto da Flassbeck e Lapavitsas presenta un deciso
sapore pre-hilferdingiano, e dandolo per buono sembra che il
capitalismo dell'eurozona non sia ancora giunto alla fase del
“capitale monopolistico”. Che ruolo giocano le grandi banche, i
flussi finanziari transnazionali, la BCE, nell'analisi di Flassbeck e
Lapavitsas? Nessuno. Gli autori si concentrano esclusivamente
sull'importazione e l'esportazione di beni e servizi, e il loro
silenzio su banche, flussi finanziari, e tassi di interesse riflette
un'impostazione per la quale il “settore finanziario” dell'EZ si
limita ad adeguarsi, passivamente, a tutto ciò che accade
nell'economia reale. L'impostazione emerge con chiarezza quando gli
autori paragonano l'EZ (i cui membri sono privi di una valuta
nazionale) ad un paese dotato di una propria moneta, come a sostenere
che, nel secondo caso, gli squilibri commerciali non potrebbero che
essere temporanei, dato che l'apprezzamento (o deprezzamento)
automatico del tasso di cambio “di equilibrio” eliminerebbe,
prima o dopo, deficit e surplus.
Nel mondo dopo
Hilferding (1910), tuttavia, un simile automatismo esiste solo nei
manuali, poiché l'influenza degli scambi di merci sul tasso di
cambio si rivela generalmente irrisorio rispetto all'impatto dei
grandi flussi finanziari transnazionali, i quali sono perlopiù
indifferenti a flussi commerciali (Akyuz 2014; Bortz 2016). Vale
anche per l'EZ: i miliardi di euro prestati dalle banche tedesche e
francesi alle imprese (finanziarie) irlandesi e spagnoli, spagnole e
greche non erano diretti a finanziare il commercio (O'Connell 2015).
Proprio questi grandi movimenti di capitali dal cuore dell'EZ alla
periferia, provenienti soprattutto da colossi della finanza
(O'Connell 2015) hanno giocato un ruolo centrale nella
destabilizzazione dell'EZ, un ruolo riconosciuto dal Prof. Bofinger e
dalla c.d. “Consensus Narrative” (2015), ma non da Flassbeck e
Lapavitsas, che non lo menzionano e non lo analizzano, facendo sì
che la loro “diagnosi” della crisi dell'EZ assomigli a un Amleto
in cui non viene citato il Principe di Danimarca.
E la concorrenza oligopolistica?
In secondo
luogo, Flassbeck e Lapavitsas si basano su una concezione alquanto
debole della concorrenza tra imprese, centrata tutta sulla riduzione
del costo del lavoro ottenuta mediante aumenti della produttività.
Essi affermano che “le condizioni dell'offerta si presentano
perlopiù come un dato per le imprese, in quanto
le forze del mercato tendono al livellamento dei prezzi dei beni
intermedi e del costo del capitale”
(corsivo mio) e perciò le imprese più innovative (cioè quelle che
riescono a tagliare il costo del lavoro) tendono a fare più profitti
e a crescere, mentre quelle più arretrate perdono fette di mercato e
e alla fine falliscono.
Tutto ciò è
davvero notevole. Perché il loro ragionamento funzioni, gli autori
presumono che la concorrenza (globale) assicuri il livellamento dei
prezzi tra i vari paesi; fatto che, sul piano empirico, è posto in
dubbio persino dagli economisti neoclassici; sul piano teorico,
necessita che siano postulati mercati perfettamente concorrenziali.
Dunque secondo Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis le imprese non
hanno il potere di imporre i prezzi, hanno tutte le stesse strutture
produttive, e producono tutte beni più o meno simili (omogenei).
Tutto ciò è estremamente irrealistico: nel mondo reale, gli
oligopoli decidono unilateralmente i prezzi e operano attraverso
immense catene globali di produzione, impegnandosi nella
differenziazione dei prodotti, nel marketing, nella comunicazione
ecc., producendo beni molto diversi in termini di complessità,
qualità, e tecnologia.
Quel che
Flassbeck e Lapavitsas non riescono a vedere sono le condizioni
materiali dell'economia europea: le aziende tedesche, produttrici di
costosi beni ad alta tecnologia, alto valore aggiunto, spesso grande
complessità, non sono in diretta concorrenza con le aziende
portoghesi, greche, spagnole, e persino con la maggior parte delle
imprese italiane, le quali sono invece specializzate nella produzione
di beni meno complessi, caratterizzati da scarso contenuto
tecnologico, basso valore aggiunto e bassi prezzi (Simonazzi et al
2013). Le aziende tedesche sono in grado di fissare i prezzi e
dominare le loro nicchie di mercato, mentre le quelle greche e
portoghesi competono con i produttori a basso prezzo dell'Asia;
competono sui costi, ma non esclusivamente sul costo del lavoro: e
non riescono a reggere la concorrenza dei produttori cinesi (Straca
2013). In buona sostanza, la concorrenza presente nel mondo reale sui
mercati oligopolistici non può essere ridotta alla semplice
competizione sul costo del lavoro, qualsiasi cosa vogliano farci
credere i manuali. E chi insiste nel concentrarsi sul costo del
lavoro per unità di prodotto non dovrebbe trascurare i costi per
unità di capitale (o i margini di profitto), così come sostenuto da
Felipe e Kumar (2011), visto che le imprese possono benissimo
competere sui margini di profitto.
Evidenze empiriche
In terzo luogo,
Flassbeck e Lapavitsas non offrono un supporto empirico alle loro
ipotesi. Evidenziamo quattro “fatti” empirici che contrastano con
la loro principale argomentazione.
1) l'elasticità
del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto a esportazioni
ed importazioni tende ad essere molto minore (in valori assoluti)
della corrispondente elasticità ai prezzi, dato che a) i salari
costituiscono soltanto il 22% del totale dei costi di produzione e b)
le imprese in grado di fissare i prezzi scaricano su questi ultimi
soltanto metà del maggior costo derivante da un aumento dei salari
(Storm e Naastepad, 2015). Ciò significa che ad un elasticità,
relativa al prezzo delle esportazioni, pari a -1.2, corrisponde una
elasticità del costo del lavoro alla domanda di esportazioni pari a
circa -0.13. Pertanto, per incrementare le esportazioni di un magro
2%, i salari nominali di un paese dovrebbero diminuire di circa il
15% (posto che la produttività rimanga immutata). Ricorda davvero il
cane che si morde la coda.
2) ci sono dati
che dimostrano che in paesi come la Spagna il deficit commerciale è
aumentato per effetto di una crescita più rapida delle importazioni,
mentre le le esportazioni rimanevano stazionarie. Se questo è il
quadro, perché un più alto costo del lavoro per unità di prodotto
ha avuto effetto solo sulle importazioni, e non sulle esportazioni?
3) se si vuole
individuare l'impatto del costo del lavoro sul commercio, occorre
rimuovere dal campo di osservazione altri fattori che possono
influenzare gli scambi commerciali, in particolar modo il reddito e
la domanda aggregata. Ma tale operazione dimostrerà che la crescita
del reddito mondiale giustifica, di per sé, la crescita delle
esportazioni, e che la crescita dei redditi nazionali è sufficiente
a spiegare la crescita delle importazioni, almeno per quanto riguarda
la maggior parte delle economie (Bussiere et al 2011). In altre
parole: le evidenze empiriche dimostrano che le dinamiche relative al
reddito hanno un impatto molto maggiore di quelle concernenti la
competitività di prezzo, specie nel lungo termine (per approfondire,
Schroeder 2015).
4) come la
letteratura insegna, bisogna tenere per ultimo l'elemento più
importante: il costo del lavoro nei paesi paesi in crisi è
cominciato a crescere solo a seguito di un precedente peggioramento
della loro bilancia dei pagamenti (Diaz Sanchez e Varoudakis 2013;
Gabrisch e Staehr 2014). Ciò indica che l'aumento del costo del
lavoro è più l'effetto che la causa degli squilibri commerciali. È
difficile vederla in altro modo. L'evidenza empirica è molto
eloquente; e non parla a favore del mito del costo del lavoro (per
analoghe considerazioni, vedi: Felipe e Kumar 2011; Wyplosz 2013;
Diaz Sanchez & Varoudakis 2013; Gabrisch & Staehr 2014;
Janssen 2015; Schroeder 2015.)
E i redditi? E la domanda aggregata?
In quarto
luogo, ciò che è peculiare dell'analisi degli squilibri
dell'eurozona proposta da Flassbeck e Lapavitsas è che non riserva
alcun ruolo (e nemmeno una menzione) per cose come “la domanda
aggregata” o “il reddito”. Il loro è un esempio di
riduzionismo involontario in cui le esportazioni, poniamo, della
Germania (le quali costituiscono le importazioni, poniamo, della
Spagna) dipendono esclusivamente dai costi del lavoro per unità di
prodotto in Germania e in Spagna.
Questo non può
essere vero. È evidente che le esportazioni tedesche verso la Spagna
dipenderanno anche dalla domanda aggregata spagnola, non foss'altro
perché una buona parte delle importazioni spagnole è rappresentata
da beni capitali (macchinari e strumentazione) e intermedi (prodotti
ad alta tecnologia e relative componenti), e pertanto è da
considerarsi complementare (Bussiere et al 2011). Poniamo che le
esportazioni di un paese (E) dipendano dal reddito mondiale (W) e dal
suo costo del lavoro (c); le importazioni dipendono invece dal
reddito nazionale (Y) e dal relativo costo del lavoro (c). Possiamo
allora scrivere la seguente espressione logaritmica per descrivere la
bilancia dei pagamenti di quel paese (Fagerberg 1988):
(dove
l'elasticità al reddito mondiale delle esportazioni, l'elasticità
al reddito nazionale delle importazione, l'elasticità del costo del
lavoro alle esportazioni, l'elasticità del costo del lavoro alle
importazioni per ogni paese sono unità immaginarie)
L'equazione è
utilissima per evidenziare come Flassbeck e Lapavitsas, ma anche
Wren-Lewis, i quali hanno attenzione solo per i costi del lavoro,
trascurano una parte importante (se non la totalità) del quadro.
Essi affermano che se il costo del lavoro nell'EZ è costante (c=1 e
quindi Log c=0) la bilancia dei pagamenti rimarrà ferma.
Dall'equazione, tuttavia, consegue che ciò può accadere solo in
circostanze del tutto particolari, ovvero quando la crescita delle
esportazioni di un paese, indotta dalla crescita del reddito
mondiale, è identica alla crescita delle importazioni indotta dalla
crescita del reddito nazionale. Non c'è alcuna ragione per credere
che tali condizioni si debbano verificare e perciò è necessario
aspettarsi, in condizioni normali e realistiche, che la bilancia dei
pagamenti migliori o peggiori a seconda che la crescita delle
esportazioni indotta dalla domanda globale superi o no la crescita
delle importazioni indotta dalla domanda nazionale.
Più
specificamente: consideriamo la Spagna, ovvero un'economia
specializzata in produzioni a contenuto tecnologico medio-basso,
rispetto alle quali l'elasticità al reddito della domanda globale
non è alta (in effetti è piuttosto bassa). Allo stesso tempo, la
Spagna importa (dalla Germania) beni capitali altamente tecnologici e
beni intermedi sofisticati, la cui elasticità al reddito è molto
alta. Il risultato è negativo per la Spagna. Ciò significa che
anche se la Spagna crescesse allo stesso ritmo del resto del mondo (o
dell'Eurozona), la sua bilancia commerciale in ogni caso
peggiorerebbe, poiché la crescita delle sue importazioni supererebbe
quella delle esportazioni.
Vale
esattamente il viceversa per la Germania, la quale produce beni
capitali o di consumo altamente tecnologici destinati alle economie
in rapida espansione (la Cina ad esempio, ma anche la Russia).
Pertanto, la domanda di esportazioni presenta una forte elasticità
al reddito mondiale, mentre la maggior parte delle importazioni
tedesche sono complementari (e crescono parallelamente alla
produzione nazionale e alla domanda: Bussiere et al 2011).
Conseguentemente, per la Germania il risultato è positivo, e dunque
il suo avanzo commerciale tende a crescere, anche quando la Germania
allinea la sua crescita a quella del resto del mondo (e
dell'eurozona). Questi percorsi asimmetrici di crescita sono la
diretta conseguenza delle differenze strutturali nella
specializzazione produttiva (Simonazzi et al 2013). Nei lavori di
Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis vengono del tutto ignorati.
Aumentare salari e inflazione in Germania non servirà.
Infine,
Flassbeck e Lapavitsas auspicano una crescita dei salari (e
dell'inflazione) in Germania, così come Wren-Lewis (2016),
nell'erronea supposizione che questo ridurrà la competitività di
prezzo tedesca, contrasterà gli avanzi commerciali, e quindi
riporterà equilibrio all'intera EZ. Tuttavia le importazioni e
esportazioni tedesche, come ho appena sostenuto, non sono molto
sensibili ai cambiamenti nei relativi costi del lavoro, e pertanto ci
sarebbe soltanto un limitato effetto nella direzione degli acquisti
(da beni tedeschi ai beni prodotti all'estero), come è stato
peraltro dimostrato da Schroeder (2015). Intendiamoci: io sono
assolutamente favorevole all'incremento dei salari reali in Germania
(superiore alla crescita della produttività più il 2%): è una
misura utile per la Germania. Ma non lo è per i paesi in crisi
dell'Eurozona.
Una crescita
dei salari e della domanda in Germania non costituisce un modo per
stabilizzare l'EZ, come è dimostrato dagli effetti di ricaduta
(diretti e indiretti) della crescita tedesca sugli altri paesi
europei in termini di valore aggiunto, i quali si diramano in varie
direzioni attraverso le catene globali del valore. Nello specifico:
se la crescita tedesca genera un aumento della produzione e nella
creazione di valore aggiunto negli USA, e se le imprese americane
acquistano beni intermedi e componenti dalla Corea del Sud, e se a
loro volta le imprese coreane utilizzano, per la loro produzione,
beni prodotti in Italia o Spagna, l'effetto indiretto della crescita
tedesca sul valore aggiunto in Italia e Spagna va incluso nel totale
degli effetti in termini di valore aggiunto riportati in Tabella 1.
Gli effetti di ricaduta in termini di valore aggiunto sono stati
calcolati utilizzando i dati degli scambi internazionali tratti dalla
serie del 2011 del World Input-Output Database (WIOD), il quale
include 35 settori produttivi (di cui 14 manifatturieri) di 40 paesi
diversi (tra i quali tutti e 27 i membri dell'UE alla data del 1
gennaio 2007). La stima offre un salutare confronto con la realtà
all'ipotesi che ripresa dell'EZ possa basarsi sulla crescita della
Germania.
Assumiamo una
crescita del PIL tedesco pari a 100 miliardi di euro (ovvero del 3,7&
del PIL di quel paese). Attraverso le catene globali di produzione,
la crescita tedesca genera reddito per 29,5 miliardi di euro nel
resto del mondo, di cui 7 nei paesi dell'EZ riportati in tabella. Già
questo dimostra quanto sia riduttivo concentrarsi solo sull'EZ, dato
che la maggior parte del commercio tedesco è con il resto del mondo.
Sul totale del valore aggiunto generato dalla crescita tedesca, quasi
il 57% (3,99 miliardi di euro) viene assorbito da Austria, Belgio,
Olanda e Francia, un altro 20% (1,4 miliardi) da Polonia, Repubblica
Ceca, Slovacchia, e Slovenia, il resto (1,66 miliardi) dall'Europa
meridionale. Questo è il mio argomento chiave: il surplus in termini
di valore aggiunto generato dalla crescita tedesca è maggiore, in
termini assoluti, per l'insieme di Repubblica Ceca, Slovacchia e
Slovania (con una popolazione totale di 17,9 milioni di persone) che
per quello costituito da Grecia, Portogallo e Spagna (con una
popolazione di 64,8 milioni).
La crescita
tedesca stimola in maniera significativa i PIL dell'Olanda, del
Belgio, dell'Austria, e anche della Repubblica Ceca, della Polonia,
della Slovacchia, della Slovenia; ma le ripercussioni sulla crescita
dell'Europa meridionale sono quasi insignificanti (Tabella). Una
reflazione in Germania, spinta dalla crescita dei salari e della
domanda, non sarebbe in alcun modo in grado di rappresentare una
svolta per i paesi del Sud Europa. Credere il contrario è una pia
illusione, basata sull'ignoranza delle asimmetrie fondamentali in
termini di produzione, tecnologia e specializzazione che
costituiscono, nel complesso, la condizioni materiali
dell'eurosistema.
Table 1
Value Added Spillovers Caused by a €100 billion Increase in German
GDP (2011)
|
Value
added spillovers (billions of €)
|
GDP
2011 (billions of €)
|
%
change in GDP
|
Population
(millions)
|
Germany
|
100.00
|
2703.1
|
3.70
|
81.8
|
|
|
|
|
|
France
|
1.25
|
2059.3
|
0.06
|
65.0
|
The
Netherlands
|
1.30
|
642.9
|
0.20
|
16.7
|
Belgium
|
0.73
|
379.1
|
0.19
|
11.0
|
Austria
|
0.70
|
308.6
|
0.23
|
8.4
|
Western
Europe
|
3.99
|
3390.0
|
0.12
|
101.0
|
|
|
|
|
|
Italy
|
0.99
|
1638.0
|
0.06
|
59.4
|
Greece
|
0.02
|
207.0
|
0.01
|
11.1
|
Portugal
|
0.10
|
176.2
|
0.06
|
10.6
|
Spain
|
0.54
|
1070.4
|
0.06
|
46.7
|
Southern
Europe
|
1.66
|
3092.5
|
0.05
|
127.7
|
|
|
|
|
|
Poland
|
0.70
|
380.2
|
0.19
|
38.1
|
Czech
Republic
|
0.48
|
163.6
|
0.29
|
10.5
|
Slovak
Republic
|
0.16
|
70.4
|
0.22
|
5.4
|
Slovenia
|
0.06
|
36.9
|
0.16
|
2.1
|
Eastern
Europe
|
1.40
|
651.1
|
0.21
|
56.0
|
|
|
|
|
|
Rest
of the world
|
15.41
|
|
|
|
Total
foreign value-added spillover
|
29.50
|
|
|
|
Note:
i dati su PIL e popolazione vengono dall'Eurostat. Gli effetti di
ricaduta sul valore aggiunto sono stimati usando i dati del 2011
tratti dal World
Input-Output Database (WIOD).
Sono veramente grato a Sebastiaan Leysen per aver calcolato la
dimensione di questi effetti.
Le vere questioni (di nuovo)
Continuare a
parlare del costo del lavoro sposta l'attenzione dai veri problemi
dell'EZ: l'unificazione monetaria ha portato a un processo centrifugo
di divergenza strutturale in termini di capacità produttiva,
occupazione e commercio (come spiegato nei miei articoli precedenti).
Tale processo è stato alimentato e rafforzato non solo
dall'impennata nei movimenti transnazionale di capitale a seguito
dell'introduzione dell'euro, ma anche dall'esistenza stessa della
moneta unica, nonché dalla politica dei tassi di interesse, uniforme
e centralizzata, della BCE, la quale fino al 2008 era forse opportuna
per un'economia stagnante e con poca inflazione come quella tedesca,
ma era senza dubbio inappropriata rispetto ai livelli di inflazione
presenti nell'Europa del Sud (Lee e Crowley 2009; Nechio 2011;
O’Connell 2015; Storm e Naastepad 2015). Il credito a buon mercato
nel Sud ha portato una bolla immobiliare insostenibile, e ha
facilitato un accumulo di debiti in uno scenario caratterizzato da
crescita alta, bassa disoccupazione e salari in aumento; ma tutto
questo si è concentrato (in assoluta coerenza con i tassi di
profitto di mercato) nei settori produttivi non dinamici e non
esposti alla concorrenza internazionale. La moderazione salariale
tedesca ha sì avuto un ruolo, non sul versante di un' ipotetica
competitività di prezzo, ma perché ha depresso la crescita e
l'inflazione in Germania, il che ha indotto la BCE ad abbassare i
tassi di interesse.
La crisi che ne
è seguita è una profonda crisi da domanda aggregata nel breve
termine, di ingovernabile divergenza strutturale tra i paesi membri
dell'EZ nel lungo. Le questioni dovrebbero pertanto essere: come fare
per riportare gli stati membri di un'unione monetaria (fin qui priva
di una significativa politica fiscale a livello sovranazionale) alla
convergenza strutturale in termini di strutture produttive,
efficienza, e in ultima istanza redditi e tenore di vita? Qual è il
livello dei tassi di interessi appropriato sia per il centro che per
la periferia dell'EZ, dal momento che dev'essere eguale per entrambi?
E che contributo possono dare le banche, il settore finanziario, i
movimenti di capitale al processo di convergenza (piuttosto che a
quello di divergenza)? Non ci sono risposte semplici ed è facile
abbandonarsi al pessimismo della ragione. Ma il futuro dell'EZ
apparirà sempre oscuro, se gli economisti progressisti non si
armeranno dell'ottimismo della volontà e non cominceranno ad
occuparsi seriamente delle questioni davvero importanti, invece di
rimasticare i miti della competitività da costo del lavoro.
Note e bibliografia
Akyüz, Y.
2014. Internationalization of finance and changing vulnerabilities in
emerging and developing economies. UNCTAD
Discussion Paper No. 217.
Available at:
http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/osgdp20143_en.pdf
Bofinger, P.
2015. German wage moderation and the Eurozone crisis. Social
Europe. 1 December.
At:
http://www.socialeurope.eu/2015/12/german-wage-moderation-and-the-eurozone-crisis/
Bortz, P.G.
2016. Inequality,
Growth and “Hot Money.”Cheltenham:
Edward Elgar.
Bussière, M.,
G. Callegari, F. Ghironi, G. Sestieri and N. Yamano. 2011. Estimating
trade elasticities: demand composition and the trade collapse of
2008-09. Mimeo.
Diaz Sanchez,
J.L. and A. Varoudakis. 2013. Growth and competitiveness as factors
of Eurozone external imbalances. Policy
Research Working Paper
6732. Washington, DC: World Bank.
Fagerberg, J.
1988. International Competitiveness. The
Economic Journal, 98
(391): 355-374
Felipe, J. and
U. Kumar. 2011. Unit labor costs in the Eurzone: The competitiveness
debate again. Working
Paper No. 651. Levy
Economics Institute of Bard College.
Gabrisch, H.
and K. Staehr. 2014. The Euro Plus Pact: cost competitiveness and
external capital flows in the EU countries. Working
Paper Series No.
1650. Frankfurt: European Central Bank.
Gaulier, G. and
V. Vicard. 2012. Current account imbalances in the euro area:
competitiveness or demand shock? Banque
de France Quarterly Selection of Articles
No. 27. Paris: Banque de France.
Hilferding, R.
1910. Das
Finanzkapital. Eine Studie über die jüngste Entwicklung des
Kapitalismus. Vienna:
Wiener Volksbuchhandlung.
Janger, J., W.
Hölzl, S. Kaniovski, J. Kutsam, M. Peneder, A. Reinstaller, S.
Sieber, I. Stadler, and F. Unterlass. 2011. Structural
Change and the Competitiveness of EU Member States - Final Report.
On-line available at: http://ec.europa.eu/enterprise/policies/
industrial-competitiveness/documents/files/structural_change_en.pdf
Janssen, R.
2015. European economic governance and flawed analysis. Social
Europe. Available at:
http://www.socialeurope.eu/author/ronald-janssen/
Lee, J. and
P.M. Crowley. 2009. Evaluating the stresses from ECB monetary policy
in the euro area. Bank
of Finland Research Discussion Papers 11-2009.
Helsinki: Bank of Finland.
Nechio, F.
2011. Monetary policy when one size does not fit all. FRBSF
Economic Letter
2011-18.
San Francisco: Federal Reserve Bank of San Francisco.
O’Connell, A.
2015. European crisis: a new tale of center-periphery relations in
the world of financial liberalization/globalization? International
Journal of Political Economy
44 (1): 174-195.
Rebooting
Consensus Authors. 2015. Rebooting the Eurozone: Step 1 – agreeing
a crisis narrative. 20 November. Available at:
http://www.voxeu.org/article/ez-crisis-consensus-narrative
Schröder, E.
2015. Eurozone imbalances: measuring the contribution of expenditure
switching and expenditure volumes 1990-2013. Department
of Economics Working Paper 08/2015,
The New School for Social Research. Available at:
http://www.economicpolicyresearch.org/econ/2015/NSSR_WP_082015.pdf
Simonazzi, A.,
A. Ginzburg and G. Nocella. 2013. Economic relations between Germany
and southern Europe. Cambridge
Journal of Economics
37 (3): 653-675.
Sinn, H.W.
2014. Austerity, growth and inflation: remarks on the Eurozone’s
unresolved competitiveness problem. The
World Economy 37 (1):
1-13.
Storm, S. and
C.W.M. Naastepad. 2015. NAIRU economics and the Eurozone crisis.
International Review
of Applied Economics
29 (6): 843-877.
Stracca, L.
2013. The rise of China and India. Blessing or curse for the advanced
countries? Working
Paper Series No.
1620. Frankfurt: European Central Bank.
Wren-Lewis, S.
2016. German exports and the Eurozone crisis. January 24, 2016.
Available at: https://www.socialeurope.eu/author/simon-wren-lewis/
Wyplosz, C.
2013. Eurozone crisis: it’s about demand, not competitiveness. At:
https://www.tcd.ie/Economics/assets/pdf/Not_competitiveness.pdf