DEMOLIAMO LUOGHI COMUNI

mercoledì 27 maggio 2015

M5S, ora basta! Ci vogliono le Candidature di Unità Popolare

"Candidatura di Unità Popolare" (C.U.P.) è lo specifico nome che designa l'operazione politica a cui Podemos ha aderito in occasione delle recenti elezioni municipali spagnole, e che ha permesso di strappare i comuni di Madrid e Barcellona dal controllo dei partiti "sistemici" di quel paese.
Se si confrontano i risultati delle elezioni nelle regioni spagnole, dove Podemos si è presentato da solo, con quelle municipali, il dato è inequivocabile: il bacino elettorale delle C.UP. è il doppio rispetto a quello di Podemos. Se non fossero state messe in campo oggi non parleremmo di "rivoluzione democratica" in Spagna.
La C.U.P. è, innanzitutto, un cartello elettorale unitario, cui possono aderire movimenti e partiti, anche se non dotati di una dimensione elettorale. Questi possono essere numerosi, e anche molto diversi tra loro: Barcelòna en comù è frutto dell'impegno di undici diverse realtà sociali e politiche, grandi, piccole e piccolissime. Il collante è costituito dalla persona del candidato alla carica per cui si corre (Presidente; Sindaco), che generalmente viene individuata in soggetto di indiscutibili prestigio e rispettablità, e dal programma, nel quale devono confluire le sensibilità delle varie anime del progetto. Lo stesso programma non viene elaborato a tavolino, ma è frutto di un processo di partecipazione democratica, che se non è quel mastodontico lavoro che ho designato con la locuzione "programma di governo", ne condivide comunque la logica.
Ma la C.U.P. non è solo un cartello per vincere le elezioni: è anche, mi si passi la retorica, qualcosa che va oltre la sommatoria delle sue componenti. E' un "cantiere" in cui le varie forze alternative al dominio del ceto politico e delle aristocrazie finanziarie imparano a conoscersi, a lavorare insieme, a fidarsi gli uni degli altri, a riconoscere ciò che di comune c'è in loro. Se i cartelli che abbiamo visto in Italia presentati dalla "sinistra radicale" dal 2008 al 2013 erano esempi di "fusioni fredde", mere operazioni di spartizione tra partiti, la C.U.P. è una "fusione calda".
Podemos, com'è noto, è guidato da un manipolo di studiosi di storia e scienze politiche. L'equivalente di Podemos in italia, il Movimento 5 Stelle, è guidato da dilettanti e da guru malriusciti. I primi sono riusciti a capire l'importanza e il valore delle C.U.P. I secondi ovviamente no; hanno applicato nei confronti dei movimenti sociali e delle forze a loro affini, presenti e attive sui territori, la stessa regola che applicano nei confronti dei partiti sistemici: nessun contatto, nessuna alleanza. 
La pretesa di "fare da soli" del M5S è stata fin qui ridicola e irritante, ma dal voto del 31 maggio 2015 sarà anche etichettabile come sciagurata  e irresponsabile. 
In queste elezioni, e in particolare in Liguria, si evidenzieranno tre cose:
 1) il Movimento, per quanto in ottima salute, non è in grado, da solo, di sconfiggere i partiti sistemici;
2) esiste un grande spazio politico ed elettorale tra coloro che non si riconoscono né nel M5S, né nel ceto politico;
3) questo spazio rischia di essere occupato dai fuoriusciti dal PD e da quel che resta della "sinistra radicale", i quali già scimiottano indegnamente Podemos.

Occorre avere chiaro in mente che l'operazione che stanno compiendo questi ultimi, con in testa Civati, è di gran lunga la più pericolosa per le sorti del "fronte" alternativo a Renzi e al ceto politico. Si tratta di un'operazione che mira a riportare "al sicuro" i consensi che, per disgusto, sono passati dall'area del centro-sinistra all'astensione o al M5S. La prospettiva del nascendo soggetto politico, tuttavia, non può che essere quella dell'alleanza con il PD, che si vorrebbe condizionare da sinistra. Tutti i voti a questo soggetto, pertanto, sono voti riconquistati al ceto politico in generale, e al PD in particolare. 
Dato che l'operazione potrebbe avere un certo appeal tra gli elettori, come dimostrerà l'esperienza di Luca Pastorino, è ancora più urgente cercare di reagire, organizzando delle C.U.P. in Italia, a cui il M5S dovrà dare il contributo principale, ma senza per questo rivendicarne la leadership.
L'alternativa è continuare a conquistare buoni risultati nelle elezioni, senza peraltro vincerle, e lasciando aperta una voragine a disposizione delle operazioni trasformistiche del ceto politico. 

Il Movimento faccia uno sforzo di intelligenza, e segua l'esempio di Podemos e il consiglio di Fabrizio Tringali. Cominci a collaborare con i movimenti sociali per la formazioni delle C.U.P. Lo avesse fatto in occasioni di queste elezioni, avrebbe conquistato (almeno) la Liguria, e non sentiremmo parlare di Pastorino e Civati. 
Le prossime occasioni sono importantissime: l'anno prossimo si vota a Torino, Milano, Napoli e Bologna. Non c'è tempo da perdere.

martedì 19 maggio 2015

Confessioni di un giornalista

Ma come si fa a essere contro l'Expo?... Il pensiero critico serve quando è competente, serio profondo. Un conto è Picketty (sic); un altro conto sono i no-Tav, o i no-Expo” (Aldo Cazzullo, Sette-Corriere della sera, 15.5)
Da che si capisce che invece il pensiero acritico può anche essere incompetente, frivolo e superficiale. Come quello di Aldo Cazzullo.

domenica 17 maggio 2015

Gli ultimi giorni per Bruxelles

Un buon articolo del Sole24Ore ci permette di fare il punto sulla situazione greca, cogliendo qualche spunto e anche qualche conforto alle nostre tesi.
Il pezzo è così riassumibile. Apparentemente è interesse di entrambe le parti (governo greco ed "eurocrati") addivenire ad un compromesso; è infatti interesse della Grecia rimanere nell'euro e ricevere i miliardi che l'Eurogruppo ancora trattiene: è interesse degli eurocrati mantenere la Grecia nell'euro, e vedersi onorati i propri crediti. Vi sono però delle resistenze politiche su tre diversi versanti, che hanno una comune origine. 

L'origine è l'operato del governo Tsipras, che ha cambiato le regole del gioco europeo. E il mainstream lo riconosce: "una nota interna dello staff del FMI osserva che Tsipras ha invertito il corso delle riforme del sistema pensionistico, del mercato del lavoro (dove progressi erano stati fatti) e della pubblica amministrazione" Laddove per "mercato del lavoro" bisogna intendere taglio degli stipendi, per "pensioni" taglio dell'assegno mensile, e per "pubblica amministrazione" taglio del personale mediante licenziamenti di massa. "Inoltre mancano riforme strutturali di politica fiscale" e qui bisogna leggere tagli alla spesa pubblica, ovvero alla sanità, alla scuola, al benessere dei cittadini. In buona sostanza "il documento del governo greco non è in continuità con il memorandum d'intesa sottoscritto dal governo Papademos nel 2012". Si intuisce lo sconforto degli eurocrati: il popolo greco subisce anni di austerity distruttiva da parte dei propri governi, conseguentemente decide di mandarli a casa votando una forza politica che promette di porre fine all'austerity, e quella forza politica mantiene la promessa. Si tratta in effetti di uno schema inedito in Europa. Il nuovo governo è anche caratterizzato da poca creanza: "ai rappresentanti del Bruxelles Group (l'ex Troika) non è più garantito l'accesso agli uffici ministeriali ad Atene". Si erano abituati troppo bene. "Uno dei capi missione racconta che da una settimana non riesce a mettersi in contatto telefonico con gli interlocutori greci". Che mascalzoni!

Queste considerazioni, e questi fatti, dovrebbero finalmente fare piazza pulita del luogo comune propagandistico, ad uso e consumo dei politici tedeschi che vogliono apparire vincitori del negoziato, che dipinge il governo di Tsipras come un governo pronto a cedere alla UE, un governo di calabraghe se non proprio di traditori. Liberi dai luoghi comuni, si può finalmente cominciare a capire la portata della rivoluzione che ha interessato la Grecia, e che rischia di estendersi all'intera Europa. Per spiegare meglio il punto, occorre tornare ai tre versanti di crisi prima accennati.

Il primo ostacolo alla conclusione di un compromesso valido per entrambe le parti, pur in presenza di un netto mutamento delle riforme greche in senso progressista e anti-austerity, è la pervicacia del governo greco nel non volere recedere dalle proprie posizioni. D'altro canto se ciò accadesse sarebbe la fine di quel governo e di SYRIZA. 
Il secondo ostacolo è il fatto che il cambio di rotta del governo greco mette in gravi difficoltà il governo tedesco. "Un accordo troppo generoso con Atene mettere in imbarazzo soprattutto Angela Merkel che finirebbe per garantire a Tsipras quello che aveva negato ad Antonis Samaras, ex-premier greco e leader di un partito che fa parte dello stesso gruppo parlamentare europeo di quella della cancelliera". Notiamo en passant che l'articolista non è nemmeno sfiorato dal dubbio che Samaras fosse ben contento di adottare le riforme "imposte" dalla Merkel, dato che quelle riforme facevano parte del programma del suo partito nonché di quello del Partito Popolare Europeo. Comunque "Merkel dovrebbe presentarsi al Bundestag e spiegare per quale ragione dopo sette anni di intransigenza ora si è piegata ad un governo ostile alla linea europea propria e degli altri governi". Rileggiamo la definizione del Sole24ore del governo Tsipras: "un governo ostile alla linea europea propria e degli altri governi". Ehi, ma non erano dei traditori euristi?
L'ultimo ostacolo è rappresentato dalla BCE, che paventa la possibilità di un "haircut" del debito greco e che negli ultimi giorni, per bocca del membro del Board Weidemann, presidente della Bundesbank, "ha cominciato a lanciare messaggi di aperta ostilità nei a un eccesso di tolleranza nei confronti di Atene".

Queste considerazioni, e questi fatti, dovrebbero fare piazza pulita di un altro luogo comune, quello secondo il quale il governo Tsipras avrebbe dovuto minacciare l'uscita dall'euro in caso di mancata accettazione delle proprie proposte. Ne abbiamo già parlato. Se Merkel sarebbe in difficoltà nel presentare al parlamento l'attuale accordo con i greci, figuriamoci come sarebbe la situazione se tale accordo fosse stato presentato in termini ricattatori. Già oggi il vice-presidente della CSU, come nota l'articolo, parla a favore dell'uscita della Grecia dall'euro. Minacciarla avrebbe semplicemente accellerato il voto contrario di Berlino alle proposte greche

Quali conclusioni trae l'autore del pezzo da questi elementi? Che l'accordo è sì conveniente per entrambe le parti, ma che è difficilmente digeribile per il parlamento tedesco. L'alternativa all'accordo, si fa notare in conclusione, sarebbe l'uscita della Grecia dall'eurozona, la qual cosa peraltro danneggerebbe anche Merkel ("la Cancelliera (...) sa che se Atene uscisse dall'euro, sarebbe un giudizio tombale sull'intera sua strategia di gestione della crisi").

Al di là della credibilità personale della Merkel, ai tedeschi non conviene forzare la mano: la dimostrata fedeltà all'euro e al progetto europeo testimoniata dal governo greco renderebbe impossibile dipingerlo come responsabile dell'uscita, la quale si scaricherebbe sugli eurocrati. Ma c'è di più: l'uscita della Grecia genererebbe un effetto domino, che porterebbe alla disgregazione della moneta unica. Ecco perché nemmeno alla BCE conviene forzare la mano: dopo l'uscita Atene continuerà a esistere, l'istituto di Francoforte invece no. 

Ecco perché, comunque vada, gli esiti della rivoluzione (democratica) greca si irradieranno su tutta europa: provocheranno o la dissoluzione dell'euro, o il mutamento delle sue regole, che si dimostreranno nient'affatto eterne e inesorabili. Non è sicuro che entrambe le eventualità convengano al popolo greco; di sicuro nessuno delle due rientra tra i piani degli eurocrati. Ed ecco perché non stiamo assistendo alle ultime giornate per Atene, ma agli ultimi giorni per Bruxelles.

mercoledì 6 maggio 2015

La Corte Costituzionale salva i pensionati e bastona il ceto politico


Meritano una lettura approfondita le motivazioni della sentenza (n.70 del 2015) con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illeggittimità del blocco della rivalutazione degli assegni pensionistici decisa dal Governo Monti. Non può sfuggire, innanzitutto, che il relatore della causa (e conseguentemente il redattore della sentenza) sia Adriana Sciarra, eletta con i voti dei 5 stelle. E forse non è un caso, visto il tenore delle motivazioni.
Come si ricorderà, il blocco delle rivalutazioni fu uno dei tratti salienti dell'intervento di Monti e Fornero sulle pensioni, all'epoca dei fatti (dicembre 2011) lodato da molti, tra cui Claudio Borghi.
Il mancato adeguamento delle retribuzioni equivaleva a una loro decurtazione in termini reali con effetti permanenti, ancorché il blocco fosse formalmente temporaneo, non essendo previsto alcun meccanismo di recupero. 
La questione di legittimità costituzionale del Decreto Legge 201/2011, che al suo art. 24, comma 25, conteneva il blocco, è stata sollevata dal Tribunale di Palermo, adito da un pensionato che chiedeva una pronuncia di condanna all'INPS a che questa pagasse quanto non corrispostogli a causa del blocco.
La Corte, dopo un'attenta disamina dei caratteri tecnico-strutturali dell'intervento, che ne evidenzia la portata e la profondità, spiega perché esso contrasti con i dettami del testo costituzionale: 
 
La censura relativa al comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, se vagliata sotto i profili della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico, induce a ritenere che siano stati valicati i limiti di ragionevolezza e proporzionalità, con conseguente pregiudizio per il potere di acquisto del trattamento stesso e con irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività.

Proporzionalità e ragionevolezza rispetto a che cosa? Al valore dell'eguaglianza sostanziale, che si estrinseca innanzitutto nel diritto ai lavoratori di ricevere una retribuzione sufficiente a garantire loro un'esistenza libera e dignitosa. Il meccanismo di rivalutazione a cui Monti e Forneo imposero il blocco serviva proprio a tutelare tali valori:

 Dall’analisi dell’evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (cioè alle pensioni).
Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all’attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono.
La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. (...) Il legislatore, sulla base di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali deve dettare la disciplina di un adeguato trattamento pensionistico, alla stregua delle risorse finanziarie attingibili e fatta salva la garanzia irrinunciabile delle esigenze minime di protezione della persona.

Il criterio della ragionevolezza vincola il legislatore, in questo senso: si possono modificare i meccanismi che preservano il valore delle retribuzioni, presenti o differite, dei lavoratori ovvero di chi ha lavorato; ma solo non intaccando il nucleo essenziale dei diritti alla cui protezione sono deputati tali meccanismi. Il legislatore, tuttavia, ha anche un altro vincolo: non solo non deve arrivare ad un sostanziale annullamento della tutela del pensionato, ma quando la riduce deve farlo sulla base di un congruo bilanciamento tra principi; deve, in altre parole, ben specificare perché ai pensionati si impone un sacrificio, e deve trattarsi di un motivo abbastanza "pesante" da giustificare tale sacrificio. Tuttavia:
 
La disposizione concernente l’azzeramento del meccanismo perequativo, contenuta nel comma 24 dell’art. 25 del d.l. 201 del 2011, come convertito, si limita a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi. Anche in sede di conversione (legge 22 dicembre 2011, n. 214), non è dato riscontrare alcuna documentazione tecnica circa le attese maggiori entrate, come previsto dall’art. 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica»

Pertanto il legislatore non solo non deve intaccare il nucleo essenziale dei diritti dei pensionati: è caricato anche da un onere di motivazione del suo intervento. Conclude la Corte:

 
L’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l’adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest’ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost. 

La pronuncia è notevole: fino ad oggi la tecnica della censura per difetto di motivazione è stata utilizzata soltanto per pronunciare l'illegittimità "formale" dei Decreti Legge, qualora non fosse ben illustrata dal legislatore la necessità e l'urgenza che costituiscono caratteri indefettibili per la loro adozione (art. 77 Cost). Trattandosi anche in questo caso di un D.L., la Corte avrebbe ben potuto limitarsi a dichiararne l'illegittimità per difetto di illustrazione circa la necessità e l'urgenza che giustificassero l'adozione del provvedimento. Invece si fa un passo ulteriore, introducendo un'llegittimità di carattere "sostanziale": il parametro per giudicare il difetto di motivazione non è l'art. 77, ma direttamente le disposizioni della Carta che sanciscono i principi cardine dell'ordinamento; in questo caso, il diritto dei lavoratori ad una giusta retribuzione (art. 36) e il diritto degli inabili al lavoro al mantenimento (art. 38). 
Non appartiene alla nostra tradizione giuridica l'obbligo di motivazione degli interventi di carattere normativo (come le leggi), ed è solo da una generazione che è stato introdotto il dovere di motivare gli atti di natura provvedimentale. La pronuncia della Corte introduce una profonda novità, getta nello sconcerto ceto politico ed eurocrati, aiuta l'economia, e sancisce un precedente: d'ora in poi non dovrebbe essere così facile per il legislatore sacrificare impunemente i diritti e i principi consacrati nella prima parte della Costituzione.