DEMOLIAMO LUOGHI COMUNI

giovedì 4 febbraio 2016

Il mito della competitività tedesca

"La Germania ha tagliato i salari e quindi ha sconvolto la bilancia commerciale dei paesi dell'Eurozona". Quante volte lo abbiamo sentito ripetere? L'idea che i beni tedeschi, improvvisamente divenuti più convenienti, abbiano sbaragliato quelli italiani, greci, spagnoli ecc ecc è diffusa come un luogo comune in tutti gli ambienti anti-euro, ed è sostenuta anche da personaggi come Costas Lapavitsas. Ma è tutto così semplice? Questo interessantissimo articolo pone qualche dubbio su una simile ricostruzione, svelando l'arretratezza dei modelli di chi fa sua una simile analisi. Ecco la mia traduzione. Dilettantesca, ma credo trasmetta il messaggio.


In risposta alla mia analisi critica sul ruolo della moderazione salariale tedesca nella crisi dell'eurozona, Heiner Flessbeck e Costas Lapavitsas hanno illustrato la loro versione di quel che grossomodo è il modello, da manuale neoclassico, di unione monetaria. La loro tesi principale è che non ci sarebbe stata alcuna crisi nelle bilance dei pagamenti degli stati euro, e dunque nessuna crisi del debito nei paesi in deficit, se tutti gli stati avessero mantenuto la crescita nominale dei salari uguale alla crescita della produttività del lavoro più il 2% (il target di inflazione). Il prof. Wren-Lewis (2016) condivide il medesimo argomento.
Seguendo tale impostazione, il delicato equilibrio dell'eurozona è stato deliberatamente sovvertito da una forte moderazione salariale nella mercantilista Germania, con crescenti surplus commerciali da parte tedesca che si presentano come meri riflessi dei crescenti deficit dell'Europa meridionale. È assai ironico che una simile logica sia comune a quella utilizzata da osservatori come Sinn (2014), o addirittura dallo stesso Schauble, con un'unica differenza: Sinn e Schauble sostengono che la crisi delle partite correnti sono dovute all'incapacità dei paesi in deficit di seguire il virtuoso esempio tedesco di taglio del costo del lavoro. Sia chiaro: il punto, per me, non schierarmi da una parte o dall'altra di tale dibattito, tra quelli che accusano la Germania di essere cresciuta a scapito dei vicini o tra quelli che invece la lodano per la sua super-competitività. Entrambe le parti sbagliano nel ritenere che un modellino da manuale universitario possa essere usato, con qualche credibilità, per sostenere che gli squilibri dell'eurozona siano stati provocati da incrementi o da diminuzioni (esogeni) del costo del lavoro per unità di prodotto. Si tratta di un mito-anzi di un feticcio, per dirla con Marx; un totem reificato che impedisce la comprensione di quanto sta davvero accadendo. È decisamente venuta l'ora di sfatare questo mito, per almeno cinque buone ragioni.

Dove sono le banche?

In primo luogo, il modello proposto da Flassbeck e Lapavitsas presenta un deciso sapore pre-hilferdingiano, e dandolo per buono sembra che il capitalismo dell'eurozona non sia ancora giunto alla fase del “capitale monopolistico”. Che ruolo giocano le grandi banche, i flussi finanziari transnazionali, la BCE, nell'analisi di Flassbeck e Lapavitsas? Nessuno. Gli autori si concentrano esclusivamente sull'importazione e l'esportazione di beni e servizi, e il loro silenzio su banche, flussi finanziari, e tassi di interesse riflette un'impostazione per la quale il “settore finanziario” dell'EZ si limita ad adeguarsi, passivamente, a tutto ciò che accade nell'economia reale. L'impostazione emerge con chiarezza quando gli autori paragonano l'EZ (i cui membri sono privi di una valuta nazionale) ad un paese dotato di una propria moneta, come a sostenere che, nel secondo caso, gli squilibri commerciali non potrebbero che essere temporanei, dato che l'apprezzamento (o deprezzamento) automatico del tasso di cambio “di equilibrio” eliminerebbe, prima o dopo, deficit e surplus.
Nel mondo dopo Hilferding (1910), tuttavia, un simile automatismo esiste solo nei manuali, poiché l'influenza degli scambi di merci sul tasso di cambio si rivela generalmente irrisorio rispetto all'impatto dei grandi flussi finanziari transnazionali, i quali sono perlopiù indifferenti a flussi commerciali (Akyuz 2014; Bortz 2016). Vale anche per l'EZ: i miliardi di euro prestati dalle banche tedesche e francesi alle imprese (finanziarie) irlandesi e spagnoli, spagnole e greche non erano diretti a finanziare il commercio (O'Connell 2015). Proprio questi grandi movimenti di capitali dal cuore dell'EZ alla periferia, provenienti soprattutto da colossi della finanza (O'Connell 2015) hanno giocato un ruolo centrale nella destabilizzazione dell'EZ, un ruolo riconosciuto dal Prof. Bofinger e dalla c.d. “Consensus Narrative” (2015), ma non da Flassbeck e Lapavitsas, che non lo menzionano e non lo analizzano, facendo sì che la loro “diagnosi” della crisi dell'EZ assomigli a un Amleto in cui non viene citato il Principe di Danimarca.

E la concorrenza oligopolistica?

In secondo luogo, Flassbeck e Lapavitsas si basano su una concezione alquanto debole della concorrenza tra imprese, centrata tutta sulla riduzione del costo del lavoro ottenuta mediante aumenti della produttività. Essi affermano che “le condizioni dell'offerta si presentano perlopiù come un dato per le imprese, in quanto le forze del mercato tendono al livellamento dei prezzi dei beni intermedi e del costo del capitale” (corsivo mio) e perciò le imprese più innovative (cioè quelle che riescono a tagliare il costo del lavoro) tendono a fare più profitti e a crescere, mentre quelle più arretrate perdono fette di mercato e e alla fine falliscono.
Tutto ciò è davvero notevole. Perché il loro ragionamento funzioni, gli autori presumono che la concorrenza (globale) assicuri il livellamento dei prezzi tra i vari paesi; fatto che, sul piano empirico, è posto in dubbio persino dagli economisti neoclassici; sul piano teorico, necessita che siano postulati mercati perfettamente concorrenziali. Dunque secondo Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis le imprese non hanno il potere di imporre i prezzi, hanno tutte le stesse strutture produttive, e producono tutte beni più o meno simili (omogenei). Tutto ciò è estremamente irrealistico: nel mondo reale, gli oligopoli decidono unilateralmente i prezzi e operano attraverso immense catene globali di produzione, impegnandosi nella differenziazione dei prodotti, nel marketing, nella comunicazione ecc., producendo beni molto diversi in termini di complessità, qualità, e tecnologia.
Quel che Flassbeck e Lapavitsas non riescono a vedere sono le condizioni materiali dell'economia europea: le aziende tedesche, produttrici di costosi beni ad alta tecnologia, alto valore aggiunto, spesso grande complessità, non sono in diretta concorrenza con le aziende portoghesi, greche, spagnole, e persino con la maggior parte delle imprese italiane, le quali sono invece specializzate nella produzione di beni meno complessi, caratterizzati da scarso contenuto tecnologico, basso valore aggiunto e bassi prezzi (Simonazzi et al 2013). Le aziende tedesche sono in grado di fissare i prezzi e dominare le loro nicchie di mercato, mentre le quelle greche e portoghesi competono con i produttori a basso prezzo dell'Asia; competono sui costi, ma non esclusivamente sul costo del lavoro: e non riescono a reggere la concorrenza dei produttori cinesi (Straca 2013). In buona sostanza, la concorrenza presente nel mondo reale sui mercati oligopolistici non può essere ridotta alla semplice competizione sul costo del lavoro, qualsiasi cosa vogliano farci credere i manuali. E chi insiste nel concentrarsi sul costo del lavoro per unità di prodotto non dovrebbe trascurare i costi per unità di capitale (o i margini di profitto), così come sostenuto da Felipe e Kumar (2011), visto che le imprese possono benissimo competere sui margini di profitto.

Evidenze empiriche

In terzo luogo, Flassbeck e Lapavitsas non offrono un supporto empirico alle loro ipotesi. Evidenziamo quattro “fatti” empirici che contrastano con la loro principale argomentazione.
1) l'elasticità del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto a esportazioni ed importazioni tende ad essere molto minore (in valori assoluti) della corrispondente elasticità ai prezzi, dato che a) i salari costituiscono soltanto il 22% del totale dei costi di produzione e b) le imprese in grado di fissare i prezzi scaricano su questi ultimi soltanto metà del maggior costo derivante da un aumento dei salari (Storm e Naastepad, 2015). Ciò significa che ad un elasticità, relativa al prezzo delle esportazioni, pari a -1.2, corrisponde una elasticità del costo del lavoro alla domanda di esportazioni pari a circa -0.13. Pertanto, per incrementare le esportazioni di un magro 2%, i salari nominali di un paese dovrebbero diminuire di circa il 15% (posto che la produttività rimanga immutata). Ricorda davvero il cane che si morde la coda.
2) ci sono dati che dimostrano che in paesi come la Spagna il deficit commerciale è aumentato per effetto di una crescita più rapida delle importazioni, mentre le le esportazioni rimanevano stazionarie. Se questo è il quadro, perché un più alto costo del lavoro per unità di prodotto ha avuto effetto solo sulle importazioni, e non sulle esportazioni?
3) se si vuole individuare l'impatto del costo del lavoro sul commercio, occorre rimuovere dal campo di osservazione altri fattori che possono influenzare gli scambi commerciali, in particolar modo il reddito e la domanda aggregata. Ma tale operazione dimostrerà che la crescita del reddito mondiale giustifica, di per sé, la crescita delle esportazioni, e che la crescita dei redditi nazionali è sufficiente a spiegare la crescita delle importazioni, almeno per quanto riguarda la maggior parte delle economie (Bussiere et al 2011). In altre parole: le evidenze empiriche dimostrano che le dinamiche relative al reddito hanno un impatto molto maggiore di quelle concernenti la competitività di prezzo, specie nel lungo termine (per approfondire, Schroeder 2015).
4) come la letteratura insegna, bisogna tenere per ultimo l'elemento più importante: il costo del lavoro nei paesi paesi in crisi è cominciato a crescere solo a seguito di un precedente peggioramento della loro bilancia dei pagamenti (Diaz Sanchez e Varoudakis 2013; Gabrisch e Staehr 2014). Ciò indica che l'aumento del costo del lavoro è più l'effetto che la causa degli squilibri commerciali. È difficile vederla in altro modo. L'evidenza empirica è molto eloquente; e non parla a favore del mito del costo del lavoro (per analoghe considerazioni, vedi: Felipe e Kumar 2011; Wyplosz 2013; Diaz Sanchez & Varoudakis 2013; Gabrisch & Staehr 2014; Janssen 2015; Schroeder 2015.)

E i redditi? E la domanda aggregata?

In quarto luogo, ciò che è peculiare dell'analisi degli squilibri dell'eurozona proposta da Flassbeck e Lapavitsas è che non riserva alcun ruolo (e nemmeno una menzione) per cose come “la domanda aggregata” o “il reddito”. Il loro è un esempio di riduzionismo involontario in cui le esportazioni, poniamo, della Germania (le quali costituiscono le importazioni, poniamo, della Spagna) dipendono esclusivamente dai costi del lavoro per unità di prodotto in Germania e in Spagna.
Questo non può essere vero. È evidente che le esportazioni tedesche verso la Spagna dipenderanno anche dalla domanda aggregata spagnola, non foss'altro perché una buona parte delle importazioni spagnole è rappresentata da beni capitali (macchinari e strumentazione) e intermedi (prodotti ad alta tecnologia e relative componenti), e pertanto è da considerarsi complementare (Bussiere et al 2011). Poniamo che le esportazioni di un paese (E) dipendano dal reddito mondiale (W) e dal suo costo del lavoro (c); le importazioni dipendono invece dal reddito nazionale (Y) e dal relativo costo del lavoro (c). Possiamo allora scrivere la seguente espressione logaritmica per descrivere la bilancia dei pagamenti di quel paese (Fagerberg 1988):
(dove l'elasticità al reddito mondiale delle esportazioni, l'elasticità al reddito nazionale delle importazione, l'elasticità del costo del lavoro alle esportazioni, l'elasticità del costo del lavoro alle importazioni per ogni paese sono unità immaginarie)


L'equazione è utilissima per evidenziare come Flassbeck e Lapavitsas, ma anche Wren-Lewis, i quali hanno attenzione solo per i costi del lavoro, trascurano una parte importante (se non la totalità) del quadro. Essi affermano che se il costo del lavoro nell'EZ è costante (c=1 e quindi Log c=0) la bilancia dei pagamenti rimarrà ferma. Dall'equazione, tuttavia, consegue che ciò può accadere solo in circostanze del tutto particolari, ovvero quando la crescita delle esportazioni di un paese, indotta dalla crescita del reddito mondiale, è identica alla crescita delle importazioni indotta dalla crescita del reddito nazionale. Non c'è alcuna ragione per credere che tali condizioni si debbano verificare e perciò è necessario aspettarsi, in condizioni normali e realistiche, che la bilancia dei pagamenti migliori o peggiori a seconda che la crescita delle esportazioni indotta dalla domanda globale superi o no la crescita delle importazioni indotta dalla domanda nazionale.
Più specificamente: consideriamo la Spagna, ovvero un'economia specializzata in produzioni a contenuto tecnologico medio-basso, rispetto alle quali l'elasticità al reddito della domanda globale non è alta (in effetti è piuttosto bassa). Allo stesso tempo, la Spagna importa (dalla Germania) beni capitali altamente tecnologici e beni intermedi sofisticati, la cui elasticità al reddito è molto alta. Il risultato è negativo per la Spagna. Ciò significa che anche se la Spagna crescesse allo stesso ritmo del resto del mondo (o dell'Eurozona), la sua bilancia commerciale in ogni caso peggiorerebbe, poiché la crescita delle sue importazioni supererebbe quella delle esportazioni.
Vale esattamente il viceversa per la Germania, la quale produce beni capitali o di consumo altamente tecnologici destinati alle economie in rapida espansione (la Cina ad esempio, ma anche la Russia). Pertanto, la domanda di esportazioni presenta una forte elasticità al reddito mondiale, mentre la maggior parte delle importazioni tedesche sono complementari (e crescono parallelamente alla produzione nazionale e alla domanda: Bussiere et al 2011). Conseguentemente, per la Germania il risultato è positivo, e dunque il suo avanzo commerciale tende a crescere, anche quando la Germania allinea la sua crescita a quella del resto del mondo (e dell'eurozona). Questi percorsi asimmetrici di crescita sono la diretta conseguenza delle differenze strutturali nella specializzazione produttiva (Simonazzi et al 2013). Nei lavori di Flassbeck, Lapavitsas e Wren-Lewis vengono del tutto ignorati.

Aumentare salari e inflazione in Germania non servirà.

Infine, Flassbeck e Lapavitsas auspicano una crescita dei salari (e dell'inflazione) in Germania, così come Wren-Lewis (2016), nell'erronea supposizione che questo ridurrà la competitività di prezzo tedesca, contrasterà gli avanzi commerciali, e quindi riporterà equilibrio all'intera EZ. Tuttavia le importazioni e esportazioni tedesche, come ho appena sostenuto, non sono molto sensibili ai cambiamenti nei relativi costi del lavoro, e pertanto ci sarebbe soltanto un limitato effetto nella direzione degli acquisti (da beni tedeschi ai beni prodotti all'estero), come è stato peraltro dimostrato da Schroeder (2015). Intendiamoci: io sono assolutamente favorevole all'incremento dei salari reali in Germania (superiore alla crescita della produttività più il 2%): è una misura utile per la Germania. Ma non lo è per i paesi in crisi dell'Eurozona.
Una crescita dei salari e della domanda in Germania non costituisce un modo per stabilizzare l'EZ, come è dimostrato dagli effetti di ricaduta (diretti e indiretti) della crescita tedesca sugli altri paesi europei in termini di valore aggiunto, i quali si diramano in varie direzioni attraverso le catene globali del valore. Nello specifico: se la crescita tedesca genera un aumento della produzione e nella creazione di valore aggiunto negli USA, e se le imprese americane acquistano beni intermedi e componenti dalla Corea del Sud, e se a loro volta le imprese coreane utilizzano, per la loro produzione, beni prodotti in Italia o Spagna, l'effetto indiretto della crescita tedesca sul valore aggiunto in Italia e Spagna va incluso nel totale degli effetti in termini di valore aggiunto riportati in Tabella 1. Gli effetti di ricaduta in termini di valore aggiunto sono stati calcolati utilizzando i dati degli scambi internazionali tratti dalla serie del 2011 del World Input-Output Database (WIOD), il quale include 35 settori produttivi (di cui 14 manifatturieri) di 40 paesi diversi (tra i quali tutti e 27 i membri dell'UE alla data del 1 gennaio 2007). La stima offre un salutare confronto con la realtà all'ipotesi che ripresa dell'EZ possa basarsi sulla crescita della Germania.
Assumiamo una crescita del PIL tedesco pari a 100 miliardi di euro (ovvero del 3,7& del PIL di quel paese). Attraverso le catene globali di produzione, la crescita tedesca genera reddito per 29,5 miliardi di euro nel resto del mondo, di cui 7 nei paesi dell'EZ riportati in tabella. Già questo dimostra quanto sia riduttivo concentrarsi solo sull'EZ, dato che la maggior parte del commercio tedesco è con il resto del mondo. Sul totale del valore aggiunto generato dalla crescita tedesca, quasi il 57% (3,99 miliardi di euro) viene assorbito da Austria, Belgio, Olanda e Francia, un altro 20% (1,4 miliardi) da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, e Slovenia, il resto (1,66 miliardi) dall'Europa meridionale. Questo è il mio argomento chiave: il surplus in termini di valore aggiunto generato dalla crescita tedesca è maggiore, in termini assoluti, per l'insieme di Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovania (con una popolazione totale di 17,9 milioni di persone) che per quello costituito da Grecia, Portogallo e Spagna (con una popolazione di 64,8 milioni).
La crescita tedesca stimola in maniera significativa i PIL dell'Olanda, del Belgio, dell'Austria, e anche della Repubblica Ceca, della Polonia, della Slovacchia, della Slovenia; ma le ripercussioni sulla crescita dell'Europa meridionale sono quasi insignificanti (Tabella). Una reflazione in Germania, spinta dalla crescita dei salari e della domanda, non sarebbe in alcun modo in grado di rappresentare una svolta per i paesi del Sud Europa. Credere il contrario è una pia illusione, basata sull'ignoranza delle asimmetrie fondamentali in termini di produzione, tecnologia e specializzazione che costituiscono, nel complesso, la condizioni materiali dell'eurosistema.
Table 1 Value Added Spillovers Caused by a €100 billion Increase in German GDP (2011)



Value added spillovers (billions of €)
GDP 2011 (billions of €)
% change in GDP
Population (millions)
Germany
100.00
2703.1
3.70
81.8





France
1.25
2059.3
0.06
65.0
The Netherlands
1.30
642.9
0.20
16.7
Belgium
0.73
379.1
0.19
11.0
Austria
0.70
308.6
0.23
8.4
Western Europe
3.99
3390.0
0.12
101.0





Italy
0.99
1638.0
0.06
59.4
Greece
0.02
207.0
0.01
11.1
Portugal
0.10
176.2
0.06
10.6
Spain
0.54
1070.4
0.06
46.7
Southern Europe
1.66
3092.5
0.05
127.7





Poland
0.70
380.2
0.19
38.1
Czech Republic
0.48
163.6
0.29
10.5
Slovak Republic
0.16
70.4
0.22
5.4
Slovenia
0.06
36.9
0.16
2.1
Eastern Europe
1.40
651.1
0.21
56.0





Rest of the world
15.41



Total foreign value-added spillover
29.50



Note: i dati su PIL e popolazione vengono dall'Eurostat. Gli effetti di ricaduta sul valore aggiunto sono stimati usando i dati del 2011 tratti dal World Input-Output Database (WIOD). Sono veramente grato a Sebastiaan Leysen per aver calcolato la dimensione di questi effetti.

Le vere questioni (di nuovo)

Continuare a parlare del costo del lavoro sposta l'attenzione dai veri problemi dell'EZ: l'unificazione monetaria ha portato a un processo centrifugo di divergenza strutturale in termini di capacità produttiva, occupazione e commercio (come spiegato nei miei articoli precedenti). Tale processo è stato alimentato e rafforzato non solo dall'impennata nei movimenti transnazionale di capitale a seguito dell'introduzione dell'euro, ma anche dall'esistenza stessa della moneta unica, nonché dalla politica dei tassi di interesse, uniforme e centralizzata, della BCE, la quale fino al 2008 era forse opportuna per un'economia stagnante e con poca inflazione come quella tedesca, ma era senza dubbio inappropriata rispetto ai livelli di inflazione presenti nell'Europa del Sud (Lee e Crowley 2009; Nechio 2011; O’Connell 2015; Storm e Naastepad 2015). Il credito a buon mercato nel Sud ha portato una bolla immobiliare insostenibile, e ha facilitato un accumulo di debiti in uno scenario caratterizzato da crescita alta, bassa disoccupazione e salari in aumento; ma tutto questo si è concentrato (in assoluta coerenza con i tassi di profitto di mercato) nei settori produttivi non dinamici e non esposti alla concorrenza internazionale. La moderazione salariale tedesca ha sì avuto un ruolo, non sul versante di un' ipotetica competitività di prezzo, ma perché ha depresso la crescita e l'inflazione in Germania, il che ha indotto la BCE ad abbassare i tassi di interesse.
La crisi che ne è seguita è una profonda crisi da domanda aggregata nel breve termine, di ingovernabile divergenza strutturale tra i paesi membri dell'EZ nel lungo. Le questioni dovrebbero pertanto essere: come fare per riportare gli stati membri di un'unione monetaria (fin qui priva di una significativa politica fiscale a livello sovranazionale) alla convergenza strutturale in termini di strutture produttive, efficienza, e in ultima istanza redditi e tenore di vita? Qual è il livello dei tassi di interessi appropriato sia per il centro che per la periferia dell'EZ, dal momento che dev'essere eguale per entrambi? E che contributo possono dare le banche, il settore finanziario, i movimenti di capitale al processo di convergenza (piuttosto che a quello di divergenza)? Non ci sono risposte semplici ed è facile abbandonarsi al pessimismo della ragione. Ma il futuro dell'EZ apparirà sempre oscuro, se gli economisti progressisti non si armeranno dell'ottimismo della volontà e non cominceranno ad occuparsi seriamente delle questioni davvero importanti, invece di rimasticare i miti della competitività da costo del lavoro.

Note e bibliografia

Akyüz, Y. 2014. Internationalization of finance and changing vulnerabilities in emerging and developing economies. UNCTAD Discussion Paper No. 217. Available at: http://unctad.org/en/PublicationsLibrary/osgdp20143_en.pdf
Bofinger, P. 2015. German wage moderation and the Eurozone crisis. Social Europe. 1 December. At: http://www.socialeurope.eu/2015/12/german-wage-moderation-and-the-eurozone-crisis/
Bortz, P.G. 2016. Inequality, Growth and “Hot Money.”Cheltenham: Edward Elgar.
Bussière, M., G. Callegari, F. Ghironi, G. Sestieri and N. Yamano. 2011. Estimating trade elasticities: demand composition and the trade collapse of 2008-09. Mimeo.
Diaz Sanchez, J.L. and A. Varoudakis. 2013. Growth and competitiveness as factors of Eurozone external imbalances. Policy Research Working Paper 6732. Washington, DC: World Bank.
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Gabrisch, H. and K. Staehr. 2014. The Euro Plus Pact: cost competitiveness and external capital flows in the EU countries. Working Paper Series No. 1650. Frankfurt: European Central Bank.
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Hilferding, R. 1910. Das Finanzkapital. Eine Studie über die jüngste Entwicklung des Kapitalismus. Vienna: Wiener Volksbuchhandlung.
Janger, J., W. Hölzl, S. Kaniovski, J. Kutsam, M. Peneder, A. Reinstaller, S. Sieber, I. Stadler, and F. Unterlass. 2011. Structural Change and the Competitiveness of EU Member States - Final Report. On-line available at: http://ec.europa.eu/enterprise/policies/ industrial-competitiveness/documents/files/structural_change_en.pdf
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